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17 aprile 2024
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La grande commedia

Paolo Pombeni - 12.10.2016
Vannino Chiti

Non sta bene scrivere: noi l’avevamo detto. Ma è così. Quando si tramuta la politica in una commedia dell’arte, poi è difficile uscire dal ruolo che impone la maschera che si indossa. Arlecchino non può che essere un furbo bugiardo e Pantalone un vecchio avaro e brontolone.

La riunione della direzione PD ha risposto in pieno ai canoni di quelle rappresentazioni. Certo i giornalisti si danno da fare per cogliere qualche sfumatura, qualche impennata, qualche battuta fuori copione, ma alla fine il registro della musica resta quello di sempre. Renzi non poteva mollare, l’opposizione interna nemmeno, i pontieri non sapevano dove ancorare le loro passerelle.

La sostanza della situazione è che diventa sempre più chiaro che il 4 dicembre ci si aspetta di giocare un round decisivo nella partita fra gli orizzonti tradizionali e gli orizzonti nuovi della politica italiana. Non siamo tra quelli che pensano che i nuovi orizzonti siano di per sé orizzonti di gloria: quello si vedrà dopo, se quel round sarà vinto. Quel che appare difficile da contestare è che i difensori delle cittadelle tradizionali non riescono a produrre una visione attrattiva, perché alla fine devono solo propagandare l’arrivo di sventure ipotetiche, grandi o piccole che possano essere.

Il tema del contendere non è ovviamente l’Italicum così come è oggi, perché tutti lo danno per spacciato. Se vincerà il no per ovvie ragioni, ma anche se vince il sì, perché difficilmente eviterà la scure della corte costituzionale su una serie di passaggi e perché a Renzi non conviene più tenerlo così com’è: sia perché prevede termini della contesa che sono molto rischiosi, sia perché non è così sciocco da sottoporsi alla critica di aver promesso un cambiamento e poi di non mantenere la promessa.

In realtà converrebbe molto di più discutere su come far funzionare la riforma costituzionale una volta che questa fosse convalidata, perché le debolezze di quel testo sono lì. Metterlo in funzione sarà tutt’altro che una passeggiata, ci vorranno anni di duro lavoro ed è difficile immaginare come si potrà farlo se la politica continua ad essere ridotta a questo rango di rissa da pollaio.

Naturalmente un segnale che il tema sia presente lo si è potuto cogliere, anche se non ha suscitato l’attenzione che meritava. Renzi ha detto di accogliere il disegno di legge del senatore Vannino Chiti che prevede un meccanismo per l’elezione del nuovo senato. Come è noto la riforma ha rinviato il tema ad una legge successiva, ma si tratta di questione del massimo rilievo. Chiti propone un meccanismo che condizioni le designazioni dei consigli regionali, che devono restare, alle designazioni che arriveranno dagli elettori con apposito atto (una scheda specifica). Non è poco, se passa compirà l’elevazione del senato nuova formula a diversa filiera di formazione di una classe politica: è quello che ci si attende per avere un bicameralismo dinamico, se non fuori almeno lontano dalle lotte di corrente dei partiti romani.

Alla minoranza non è bastato, ma si deve dire che non è uscita bene dalla direzione. Incapace di presentare una vera proposta alternativa forte e convincente, toccata nella sua credibilità dal ripudio di una riforma che invece ha più volte votato, essa non è neppure riuscita ad essere propositiva sulle sue intenzioni future. Di scissione non vuol sentir parlare nessuno, perché quasi tutti sono consapevoli che i militanti non amano abbandonare il nido in cui sono cresciuti e gli elettori se li si spinge ad un giudizio negativo sul PD attuale è più probabile che votino M5S o magari addirittura Salvini piuttosto che confluiscano su un partitino scissionista che non si capisce cosa abbia da proporre se non la nostalgia del passato.

Neppure Renzi è però uscito alla grande. Lui deve fare due parti in commedia, il segretario del partito e il premier e questo è più difficile di quanto appaia. La sintesi che propone è quella delle “visioni” contro le “divisioni”: bel gioco di parole usato all’Assolombarda, ma proposta ancora oscura. Certo di visioni avrebbe bisogno tanto un partito quanto un governo, ma il tempo non è dei più propizi per questo genere di esercizi. Il governo deve fare i conti con una crisi che non è ancora veramente in fase di soluzione anche se qualche miglioramento si intravvede. Il partito deve proporre visioni avendo una base militante anziana (non proprio il meglio per essere attratti da quel genere di operazioni) ed essendo straziato da una lotta intestina per la determinazione di chi avrà le redini del potere dopo quel che succederà il 4 dicembre.

Urgerebbe una sintesi, la promozione di un disegno comune, la proposta di un progetto in grado di chiamare a raccolta le forze migliori del paese. Come farlo in un contesto che è dominato da una campagna elettorale che durerà ancora un mese e mezzo e che “terrà cartellone”, perché così vuole la società dello spettacolo in cui tutti siamo immersi? Non possono rinunciarci i politici, ma neppure i giornalisti che hanno bisogno di pubblico, neppure gli intellettuali e le varie componenti dei gruppi dirigenti che ragionano sul loro futuro dopo che per tutti l’esito del 4 dicembre segnerà uno spartiacque.

Il fatto è che il mondo non attende e l’Italia deve posizionarsi nelle scadenze e nei problemi che ci sono nel frattempo, ma che l’opinione pubblica non riesce a cogliere perché il gran circo mediatico la tiene inchiodata ai duelli da gladiatori fra chi sta da una parte e chi dall’altra nella scelta referendaria. Parliamo di quella opinione pubblica che ancora non si stacca dalla politica. L’altra le ha già voltato le spalle e si adagia nelle vie di fuga drogate dei populismi di varia natura.