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La Gran Bretagna dei Conservatori

Giulia Guazzaloca - 21.05.2015
Michael Gove

La nuova squadra di Cameron

 

Dopo le innumerevoli analisi sull’esito sorprendente delle elezioni dello scorso 7 maggio, i riflettori sulla politica inglese non si sono spenti. Forte della maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, David Cameron ha formato la sua nuova squadra di governo, di soli tories, e c’è grande fermento per alcuni provvedimenti che l’esecutivo si accingerebbe a prendere: dalla revoca dello Human Rights Act a misure più stringenti per combattere il radicalismo islamico, dalla «guerra alla BBC»  – come l’hanno definita i media – all’opposizione ai piani europei di insediamento e redistribuzione dei migranti.

Nella composizione del nuovo governo è stata evidente la volontà del primo ministro di puntare alla stabilità e alla continuità: sono stati confermati, infatti, tutti i precedenti ministri nei dicasteri chiave delle Finanze (George Osborne), degli Esteri (Philip Hammond), della Difesa (Michael Fallon) e degli Interni (Theresa May). Conferme prevedibili, del resto, dopo i risultati elettorali che, secondo la maggior parte degli analisti, hanno premiato il partito conservatore proprio sui temi caldi dell’economia, dell’immigrazione e del rapporto con l’Europa; con la disoccupazione in calo al 5,6%, la sterlina forte sull’euro e la crescita attestata al 2,5%, Cameron non poteva che proseguire sulla linea dell’austerity promossa da Osborne; al tempo stesso Theresa May gli fornisce una sicura garanzia rispetto alle posizioni tradizionalmente euroscettiche e anti-immigrazione del suo elettorato.

Per il resto la nuova squadra presenta più donne (un terzo), molti euroscettici e rappresentanti di tutte le numerose lobby e correnti interne al partito conservatore: un capolavoro di equilibrismo politico, secondo alcuni, una versione d’oltremanica del «manuale Cencelli» nostrano, secondo altri. Anche questa è stata probabilmente una scelta inevitabile per Cameron: è senz’altro più forte rispetto a quando condivideva il potere coi Lib-Dem, ma – come ha scritto il «Guardian» – si trova più esposto alle critiche interne dei suoi colleghi partito e ha la responsabilità di portare avanti un progetto conservatore coerente. Insomma, il fatto di non doversi più nascondersi dietro l’operato dei Lib-Dem rappresenta per il premier un vantaggio, ma anche un elemento di potenziale debolezza.

Tra le nomine più significative, che non hanno mancato di suscitare polemiche, c’è quella dello scozzese Michael Gove al Ministero della Giustizia: già ministro dell’Educazione nel 2010-2014 e artefice di una controversa riforma della scuola, aveva detto di ispirarsi a Gramsci per la sua visione del sistema educativo, ma si era anche espresso a favore della reintroduzione della pena di morte. C’è poi il musulmano Sajid Javid (Attività produttive), «affetto da thatcherite» – ha dichiarato – e pronto a introdurre una legge restrittiva sul diritto di sciopero per i dipendenti pubblici; sostenitore di Israele e sensibile agli interessi dei grandi imprenditori, nel nuovo governo rappresenta una delle voci più ferme a difesa della permanenza di Londra nella UE. Thatcheriano e già collaboratore della «Lady di ferro» è anche il neo ministro della Cultura John Whittingdale, le cui dichiarazioni contro il canone alla BBC – «in realtà peggio della poll tax» perché non include il principio di proporzionalità – sono state lette come una sfida del nuovo esecutivo alla televisione pubblica; del resto l’idea di privatizzare la BBC non è nuova nell’agenda dei conservatori.

 

Le tensioni con l’Europa: Human Rights Act e immigrazione

 

In campagna elettorale Cameron ha promesso agli elettori un referendum (nel 2017) sulla permanenza del Regno Unito nella UE e presentato un programma in 7 punti nel quale, in sostanza, si chiede all’Europa piena autonomia nella gestione degli immigrati (sia in merito agli ingressi che all’estensione ad essi delle misure di welfare) e la possibilità di porre il veto a leggi, norme e regolamenti imposti da Bruxelles. La schiacciante vittoria elettorale dei tories rende ora più concreta l’eventualità, se non dell’uscita di Londra dall’Unione Europea, perlomeno di un ulteriore raffreddamento dei suoi rapporti con le istituzioni comunitarie.

In questo senso sta suscitando un grande dibattito, aperto da un articolo dell’«Independent» di lunedì 11 maggio, la possibilità che il governo revochi la legge, varata nel 1998 dai laburisti, che incorpora nel diritto britannico le direttive contenute nella Convenzione dei Diritti Umani redatta dal Consiglio d’Europa. I conservatori avevano incluso lo stralcio dello Human Rights Act nel loro programma elettorale e la nomina di Gove alla Giustizia sembra confermare l’intenzione del premier di andare avanti su questa strada. L’attuale legge sarebbe sostituita da un British Bill of Rights volto a spezzare il legame fra i tribunali britannici e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, rendendo, di fatto, più lunghe e complesse le procedure di denuncia delle violazioni.

Ma a fronte di molti sostenitori, tra cui il ministro degli Interni May, il provvedimento suscita altresì numerose resistenze anche fra i membri del partito tory, compresi alcuni dei più fervidi euroscettici come il deputato David Davis. Riportando le sue dichiarazioni contrarie alla cancellazione dello Human Rights Act, il «Guardian» ha scritto che esse sono emblematiche della «montante ribellione dei parlamentari tory» e delle grandi difficoltà politiche connesse alla «secessione» britannica dalla Corte di Strasburgo.

Se la questione della legge sui diritti umani divide il fronte conservatore, più compatto si presenta sul tema dell’immigrazione. Durissime le dichiarazioni al «Times» di Theresa May proprio mentre la UE sta approntando un piano condiviso di distribuzione e asilo dei profughi tra i paesi membri: denunciando il fallimento dell’operazione Mare Nostrum, la ministra ha detto che la Gran Bretagna «non parteciperà al sistema obbligatorio di riallocazione dei migranti» e che sosterrà invece un «programma attivo di supporto al rimpatrio». Netta, dunque, la posizione di Londra che getta ulteriore benzina tanto sulla partita, complessa e controversa, del piano europeo per fronteggiare l’emergenza dell’immigrazione clandestina, quanto su quella dei rapporti tra la Gran Bretagna e l’Unione. E difatti, subito dopo la vittoria dei conservatori, la cancelliera Merkel si è affrettata a dichiarare che non è tra le priorità dei paesi membri la revisione dei trattati per andare incontro alle richieste di Londra di rinegoziare l’appartenenza alla UE.

Cameron sembra comunque deciso a proseguire su tutti i punti che nella passata legislatura aveva dovuto accantonare per l’opposizione dei liberal-democratici: il governo, ad esempio, si appresta a varare una legge che consegna maggiori poteri alle forze dell’ordine nella lotta contro l’estremismo islamico, inclusa la possibilità di chiudere più facilmente le moschee. «Siamo stati una società passivamente tollerante per troppo tempo», ha detto il premier. Ma se i numeri gli danno ora modo di realizzare molti punti dell’agenda conservatrice, c’è tuttavia un enorme macigno a pesare sull’attuale governo e sul futuro istituzionale della Gran Bretagna: la schiacciante vittoria della sinistra nazionalista in Scozia (lo Scottish National Party è passato da 6 a 56 seggi). «Le due porzioni maggiori del nostro Regno sempre più disunito, l’Inghilterra e la Scozia, sono destinate alla discordia», ha scritto Timothy Garton Ash. È probabile che i prossimi cinque anni impegneranno Cameron non solo al tavolo dell’Europa, ma anche nella riconfigurazione istituzionale del Regno Unito.