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27 marzo 2024
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L’Europa e la fine della storia

Andrea Frangioni * - 19.05.2015
Naufragio nel Canale di Sicilia

E’ la relativa assuefazione dell’opinione pubblica il dato che più tormenta di fronte all’ultimo grande naufragio nel Canale di Sicilia (sembra confermato lo spaventoso bilancio di oltre 700 morti). E’ incredibile che non sia stato proclamato il lutto nazionale (come fu invece fatto per l’altro grande naufragio dell’ottobre 2013, con oltre 300 morti); è incredibile che non si siano svolte veglie di preghiera in tutte le Chiese e in tutti gli altri luoghi di culto delle nostre città; è incredibile che, salvo qualche accenno, il tema non sia stato al centro delle celebrazioni del 25 aprile, tanto più che le migrazioni in corso sono dovute anche alla peste che tormenta i nostri giorni, il fascismo jihadista.

Tutto questo sembra confermare che, almeno in Europa, viviamo davvero nella fine della storia. In Europa la storia è finita perché, usciti dall’età delle ideologie, viviamo in un eterno presente, incapaci di dare un significato alle nostre esistenze che vada al di là delle contingenze materiali. Siamo divenuti incapaci di collegare le nostre vite alle generazioni che ci hanno proceduto e di concepire le nostre responsabilità nei confronti delle generazioni future. E questo nonostante i molti esempi “privati” di dedizione al prossimo (il volontariato) di cui siamo ancora capaci.

Una delle più chiare manifestazioni di questa fine della storia è la crisi del progetto europeo, di cui ha già scritto su questo giornale Paolo Pombeni. Non si tratta soltanto dell’incapacità di affrontare le emergenze del nostro tempo: l’Unione europea è percepita come un sistema opaco, impersonale e misterioso, in cui la “governance” ha sostituito il governo democratico e la decisione politica legittimata democraticamente si perde nel procedimento tecnico, tra libri bianchi, consultazioni e comitati vari. A questa percezione i cittadini europei reagiscono con una crescente insofferenza, dovuta all’inefficienza e alla ferraginosità del meccanismo. Ma in fondo si potrebbe trattare di un assetto coerente con il processo di estrema individualizzazione delle società occidentali: se ciò che conta è solo la tutela di una sfera di prerogative individuali, da consumatori più che da cittadini, un sistema che si autoregola, che sembra funzionare da solo, non dominato da nessuno, con meccanismi tecnici di risoluzione delle controversie, non potrebbe risultare, se efficiente, più allettante del faticoso governo democratico? Si tratta, insomma, di una percezione illusoria, che in buona parte non corrisponde all’effettivo funzionamento dell’Unione europea. Ma è una percezione che rischia di corromperci, che ci predispone ad accettare in futuro “governance” che prescindano totalmente dalla legittimazione democratica, quando queste ci appariranno più efficienti del “mostro buono” di Bruxelles.

Se questo è vero è necessario guardare in faccia la realtà, senza infingimenti, senza rifugiarsi nella retorica europeista, magari per timore di essere confusi con posizioni populiste antieuropee. E così si deve avere il coraggio di ammettere che gli Stati Uniti d’Europa non possono rappresentare, almeno per questa generazione, una soluzione. Non esiste, per questo obiettivo, la necessaria mobilitazione di opinioni pubbliche, classi dirigenti, leadership. Non esiste uno spazio pubblico europeo sul quale fondare istituzioni federali e questo spazio pubblico europeo non può essere costruito semplicemente perché manca (e mancherà ancora per molte generazioni) una lingua comune europea.

Così, di fronte alle emergenze del nostro tempo, di fronte al rischio, non imminente, forse, ma reale, di una nuova tremenda sconfitta in Europa dei valori liberali, occorre partire da una “rivitalizzazione” delle democrazie nell’unico ambito in cui fino ad oggi hanno dimostrato di funzionare, gli Stati nazionali. La premessa è certamente quella dell’uscita dalla crisi economica perché le democrazie postbelliche hanno costruito la loro legittimazione sulla capacità di produrre benessere. Ma occorrerà anche, quando sarà tornata una crescita decente, dare più importanza alla coesione sociale ed arginare la predominanza di un materialismo economicista su tutti gli aspetti della vita (ad esempio limitando il peso sulle nostre società degli oligopoli finanziari: è così complicato attuare una misura liberista come il ritorno alla totale separazione tra banche commerciali e banche d’investimento?). E’ un sentiero stretto e difficile da percorrere: si tratta di scommettere, per usare un termine desueto, su un “rinascimento spirituale” in cui tornare a credere, come scrisse Croce, che “la libertà richiede idee e ideali, e l’infinito cielo, e lo sfondo dell’universo”.

 

 

 

 

* studioso di storia contemporanea, è autore di Salvemini e la Grande guerra.