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20 aprile 2024
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La crisi della Grecia e i guai dell’Europa

Giovanni Bernardini - 25.07.2015
Eurosummit Grecia

L’estate è la stagione perfetta per i drammi mediatici: possibilmente brevi e intensi, segnati da aneddoti gustosi e coronati da finali edificanti. Non sfugge alla regola la vicenda greca delle ultime settimane e in particolare l’Eurosummit-fiume di metà mese, una lunga nottata insonne e nevrotica come si conviene a una simile messinscena. Un incontro durante il quale, secondo i beninformati, le proposte sono diventate slogan, le rivendicazioni gesti teatrali, le posizioni un mero riflesso delle personalità dei leader che le esprimevano o peggio ancora dei rispettivi “caratteri nazionali” (il tedesco inflessibile, il greco furbacchione). Il tutto in un’atmosfera che un’indiscrezione dall’interno ha definito laconicamente “shitty”, e per buona creanza lasciamo ai lettori l’onere della traduzione. Nelle stesse ore, voci e illazioni correvano soprattutto attraverso Twitter e la mannaia dei suoi 140 caratteri: inadeguati a rendere la complessità del dibattito in corso ma perfetti per colpi di scena e virgolettati a effetto.

A distanza di giorni urge un bilancio dei danni d’immagine che quel pessimo spettacolo ha arrecato all’Europa. A cominciare dall’idea malsana che il negoziato fosse un gioco a somma zero, nel quale la vittoria di una parte corrispondeva necessariamente alla capitolazione dell’altra. Altrettanto irritante è la logica delle tifoserie opposte che imperversa da settimane, tra chi dagli agi della Costa Smeralda invoca un addio volontario all’Euro da parte dei greci, che ne sconterebbero amaramente le conseguenze; e chi, armato di grafici e proiezioni più o meno fantasiosi, chiede loro di continuare a sottoporsi volenterosamente a ricette e sacrifici da cui non traggono alcun beneficio da tempo. Il tutto in una ridda di raffigurazioni da fare accapponare la pelle di chiunque abbia conservato un briciolo di buonsenso prima ancora che di memoria storica: dalla Cancelliera equipaggiata di elmetto a punta o svastica, al greco sporco, panciuto e arrogante proposto da uno dei principali quotidiani olandesi, che pretende l’obolo per continuare il suo dolce far niente.

Relegare tutto questo a note di colore è un azzardo che chi scrive non si sente di correre, e per più di una ragione. A cominciare dalla scomoda ricorrenza di quel conflitto civile europeo, poi mondiale, in cui un secolo fa gli stereotipi caricaturali sulla disumanità e i difetti congeniti del vicino-nemico hanno giocato una parte fondamentale nella mobilitazione culturale delle parti. Ancora peggio andò col secondo e le sue connotazioni razziali, i cui strascichi si propagano fino al cattivo gusto delle vignette odierne. Ne è passato di tempo, ma non abbastanza per oscurare l’evidenza che il conflitto è sempre stato la norma per l’Europa, e che a conti fatti l’ultimo si è concluso soltanto con la fine della divisione continentale venticinque anni fa. Nel frattempo, quel processo d’integrazione che fino a ieri sembrava una necessità storica perde costantemente attrattiva e approvazione presso l’opinione pubblica, disillusa sulle sue potenzialità al punto che chi oggi schierarsi “contro l’Europa” paga in termini elettorali.

Spiace deludere gli idealisti ma nessuna ineluttabile forza centripeta è all’origine dell’integrazione continentale. Al contrario essa è il risultato di intenti del tutto pragmatici, a cominciare dall’iniziale impulso statunitense verso gli alquanto diffidenti partner del Vecchio Continente. Fecero il resto la necessità di imbrigliare la Germania in una rete continentale, e quella di sommare le forze per compensare la progressiva perdita di centralità dell’Europa, per mostrare coesione di fronte alle “minacce” d’oltre cortina, e soprattutto per ricostruire i paesi devastati dall’ultima guerra. Già, perché in fin dei conti l’integrazione europea ha generato ricchezza e benessere talmente diffusi da rendere semplicemente meno conveniente qualunque alternativa più blanda che pure si è talvolta affacciata. Su questo essa ha goduto per decenni di prestigio presso i propri cittadini, ha “convertito” scettici e oppositori, e ha attratto nuovi membri per i quali l’alternativa di restare fuori era meno profittevole.

In questo contesto è deprecabile la scarsa coscienza mostrata dagli odierni leader europei di quanto il caso greco sia paradigmatico e decisivo per il futuro, più a livello d’immagine che di sostanza: un paese accettato coscientemente all’interno della nuova costruzione dell’Euro (ci si risparmi il “segreto di Pulcinella” dei conti truccati, di cui tutti ovviamente erano a conoscenza), vittima certamente dei propri guai strutturali ma anche retto per anni da governi inclini alla collaborazione con Bruxelles e proni ai piani che si chiedeva loro di applicare. Il risultato odierno è che, più delle cifre del debito, dovrebbero far paura quelle relative al crollo del già magro prodotto interno lordo (che vale circa il 2,5% di quello europeo) e più ancora alla disoccupazione, stimata ottimisticamente attorno al 25%. A poco vale obiettare che gli effetti si vedranno nel lungo periodo, nel quale come Keynes ammoniva saremo tutti morti; ancora meno sostenere che il fallimento è frutto della negligenza di Atene, dato che la ben più virtuosa Spagna ha applicato pedissequamente l’“austerity” richiesta e veleggia sulle stesse percentuali di cittadini senza impiego. Aggrapparsi a scarti percentuali non cancella l’evidenza che le ricette imposte dall’Europa non hanno prodotto alcun “rimbalzo” della produzione, né delle esportazioni e tantomeno dell’occupazione: secondo il giudizio di molti eminenti economisti, a nulla in tal senso servirà nemmeno l’ultimo accordo della notte di Bruxelles. Che però nel frattempo è stato presentato anche dalla stampa tedesca come “punitivo” nei confronti del governo Tsipras e della sua decisione di ricorrere a un referendum. È lecito discutere della saggezza o meno della scelta del premier greco, ma l’immagine di istituzioni vendicative nei confronti di una consultazione popolare, così come quella di un paese “commissariato” come vanno ripetendo molti media, continua a fare soltanto il gioco dei tanto temuti “populismi” (quelli veri ovviamente, non Syriza che è ben altro).

La realtà dunque è che la miope gestione della crisi greca continua a gettare discredito sulle istituzioni europee e a fomentare disaffezione, scetticismo e ostilità presso i cittadini del continente, non soltanto dei paesi dove la crisi morde più forte. Assieme al vergognoso trattamento della questione rifugiati, cui qui si può solo accennare, essa rivela tanto una preoccupante mancanza di un progetto condiviso di ritorno alla crescita e alla diffusione del benessere, quanto di una policy coraggiosa e lungimirante. Certamente i rapporti di forza devono contare, ma non possono costituire l’unica regola per un’egemonia tedesca che è nei fatti, ma che deve diventare capace di promuovere la crescita generale per non essere percepita come dominio indebito. E certamente le regole e il loro rispetto sono fondamentali: ma è bene tenere a mente anche che di regole si può morire quando manca la volontà tempestività di adeguarle alle urgenze del momento, alle mutate condizioni, e soprattutto all’evidenza che esse non servono allo scopo.