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La complessa ricomposizione del centrodestra

Luca Tentoni - 05.08.2017
Salvini e Meloni

Secondo tutti i sondaggi, i partiti di destra si apprestano a superare - dopo più di venti anni - il centrodestra di Berlusconi. La Lega (Salvini) e Fratelli d'Italia (Meloni) sono accreditati di una percentuale complessiva oscillante fra il 17 e il 20% dei consensi popolari, mentre Forza Italia non arriva mai, nelle diverse rilevazioni, oltre quota 14%. Questo cambiamento di rapporti di forza ci riporta alle prime due elezioni politiche della Seconda Repubblica: nel 1994, infatti, Lega (8,4%) e AN (13,5%) superarono, sia pur di poco (21,9 a 21) il partito di Berlusconi; nel 1996 (Lega 10,1%, AN 15,7% contro il 20,6% di FI, senza contare il 5,8% del CCD-CDU che riportò l'ago della bilancia in equilibrio) si arrivò ad un sostanziale pareggio reso simbolicamente inutile - oltre che dalla sconfitta elettorale contro l'Ulivo di Prodi - da altri due fattori (l'uscita del Carroccio di Bossi dall'alleanza di centrodestra e il progressivo avvicinamento al centro del partito di Fini). La caratterizzazione sempre più marcatamente di centrodestra di AN, inoltre (fino alla confluenza nel PDL) ha molto attenuato la natura di "destra" del partito di Fini, così come la stessa Lega di Bossi, dopo l'accentuazione secessionista e di protesta radicale del 1994-1996, si è ritrovata ad essere forza più di governo che di lotta per tutto il decennio iniziale del XXI secolo. Le basi sociali ed elettorali della destra, in Italia, non sono mai state omogenee nelle varie aree del Paese. Durante la Prima Repubblica, monarchici e missini superavano agevolmente il 10-15% (toccando quota 20% in taluni casi) nel Sud, nelle Isole e nella stessa regione Lazio (con la roccaforte di Roma) però non arrivavano quasi mai al 6-7% nelle regioni centrali e settentrionali. Il "vento del Nord", insomma, che spirava alla fine della Seconda guerra mondiale, ha continuato ad arginare e a ridimensionare le fortune elettorali della destra, fatta eccezione per alcune realtà locali particolari (fra tutte, Bolzano). Avevamo, così, una destra "asimmetrica", con un potenziale di voto molto vasto nella metà del Paese (e dipendente dalle alterne fortune della DC: un bacino pronto a svuotarsi e a dirigersi verso la "Balena bianca" in caso di necessità, come nel 1948 e nel 1976) ed esiguo nell'altra metà. Nell'avvio della Seconda Repubblica, Berlusconi aveva avuto un'intuizione geniale, agevolata dalla particolare natura della competizione (il Mattarellum assegnava i tre quarti dei seggi in collegi uninominali) che rendeva possibile una doppia coalizione: al Nord, FI-Lega; al centrosud, FI-AN. In questo modo, pur avendo due alleati complessivamente forti quanto il suo partito (1994), il Cavaliere sapeva di essere il solo a poter fare la sintesi fra le "due destre" divise fra loro quasi da tutto (entrambe "nazionaliste", per esempio, ma ciascuna a modo suo). Berlusconi comprese che lo scongelamento di voti di destra, provocato al Nord dalla crisi prima e dalla dissoluzione poi della DC-PPI, avrebbe potuto permettergli di diversificare l'offerta politica, proponendo agli italiani un soggetto moderato (quella azzurro) e due di destra (la Lega, AN) in modo da drenare consensi che erano stati democristiani sia al Nord, sia al Sud. Se si osserva la distribuzione geografica dei voti dei due partiti a destra di Forza Italia, infatti, si nota che entrambi (soprattutto la Lega) avevano difficoltà a sfondare in una delle due parti del Paese; i loro consensi sommati, tuttavia, non si discostavano mai in modo significativo dalla media nazionale. Se però, sul piano della resa coalizionale, l'esperimento del 1994 consentiva a Berlusconi di restare soltanto pochi mesi al governo e gli avrebbe impedito addirittura, nel 1996, di riformare le alleanze della volta precedente, nel 2001 la situazione cambia radicalmente. Sul piano organizzativo, perchè nasce la CDL, che dal 2001 in poi sarà sempre largamente dominata dal partito di Berlusconi (2001: FI 29,4% contro il 12% di AN e il 3,9% della Lega; 2006: FI 23,7%, AN 12,3%, Lega 4,6%) e poi dal "rassemblement" di centrodestra del PDL (2008: PDL 37,4%, Lega 8,3%, Destra 2,4%, quest’ultima non alleata; 2013: PDL 21,6%, Lega 4,1%, FDI-Destra 2,6%). Nel 2001 in particolare, il partito "azzurro" riesce - come faceva la DC nei confronti delle destre - a drenare voti dai partiti vicini, assorbendone sia al Nord dalla Lega, sia, in misura minore, al Centrosud da AN. La nascita del PDL e la crisi della Lega - uniti alla ridotta capacità espansiva dimostrata da FDI-Destra - hanno permesso al partito di Berlusconi di restare egemone nel suo campo e in tutte le macroregioni, anche in un anno di fortissime perdite elettorali come il 2013. Le stesse dinamiche successive, che hanno visto il Carroccio recuperare consensi (e conquistarne di nuovi) alle europee 2014, alle regionali e alle comunali del periodo 2015-2017, hanno però mostrato (al netto della crisi di Forza Italia) la sostanziale riproposizione di una posizione di forza "asimmetrica" della destra: ben insediata al Nord (dove prevale Salvini e la Lega supera spesso e largamente FI), debole o poco incisiva al Centrosud (dove FDI raggiunge buone percentuali, non tuttavia paragonabili a quelle del Carroccio nel Settentrione; inoltre, il residuo insediamento territoriale "azzurro" e i risultati modesti di "Noi per Salvini" nel Mezzogiorno rendono impossibile per la destra "plurale" raggiungere quote di voto rilevanti). Gli stessi sondaggi d'opinione delineano - come si diceva - una sostanziale complessiva prevalenza di Lega e FDI su FI, che però è tale ed è marcata solo a nord di Roma. Nel Mezzogiorno, il voto radicale di protesta (non solo quello ex CDL) si orienta maggiormente verso il M5S, che ha un appeal elettorale rafforzato dalla natura "nordista" (affievolita sul piano ideologico e programmatico, ma pur sempre presente) del leader leghista e da un'offerta che - dal lato di FDI - sembra attrarre (con l'eccezione di Roma e di poche altre aree del Paese) solo un elettorato molto particolare (e che nel 2018, verosimilmente, si misurerà con la temibile concorrenza di una galassia di formazioni estremamente radicali, come Forza Nuova e Casapound). Il maggiore ostacolo al ritorno di una coalizione di centrodestra tradizionale, quindi, non sta tanto e soltanto nella leadership (in discussione), nei programmi (in materia di euro e UE, per esempio) o nell'appartenenza a diverse "famiglie politiche europee" (FI-PPE, Lega-FN), quanto in una diversa "declinazione territoriale" del voto: più "estremo" al Nord, più moderato e "azzurro" al Sud. Si tratta di una differenza che ricorda per certi versi quella del 1994 fra la Lega di Bossi e AN di Fini. Allora, però, c'era una sintesi (Berlusconi, Forza Italia) che oggi non c'è, perchè il fulcro che teneva in equilibrio il centrodestra è diventato una delle due parti in causa. La rottura del 2011, quando il Cavaliere diede la fiducia al governo Monti, confermata nel 2013 (governo Letta) non si è affatto ricomposta, nonostante Forza Italia sia all'opposizione dal momento della decadenza di Berlusconi dal Senato e, ancor più, dalla fine del "patto del Nazareno". La stessa prospettiva di un accordo "necessitato" dopo il voto del 2018 fra FI, centristi e PD non può che accentuare il solco con la destra di Salvini e Meloni, preoccupata di non annacquare identità e perdere (a vantaggio dell'astensione o del M5S) importanti posizioni elettorali. Ciò va ben al di là della stessa natura dei meccanismi di trasformazione dei voti in seggi adottati per Camera e Senato, che rendono la competizione "tutti contro tutti" la scelta più facile. E che, se per un verso non impediscono a Lega e FDI di crescere senza farsi concorrenza - ciascuno nella propria area geografica di riferimento - rendono però difficile il rapporto con Forza Italia. Ecco perchè le elezioni regionali siciliane, indipendentemente dagli eventuali (ma non molto probabili) accordi fra FI e i centristi di Alfano (nell'isola il partito di Salvini ha pochissimo peso, mentre FDI potrebbe non opporsi ad una "grande alleanza" per conquistare il governo della regione) avranno un valore politico nazionale per l'esito (in caso di vittoria del centrodestra), ma non necessariamente un riflesso positivo su una coalizione che non può fare a meno della Lega, se l’area ex CDL vuole essere numericamente alla pari, alle politiche di marzo-aprile 2018, con PD e M5S. Al Senato, dove gli sbarramenti sono elevati e i voti centristi possono essere preziosi per Berlusconi, è probabile vedere "mini coalizioni" regionali, soprattutto da Roma in giù, fra FI e gruppi moderati. Al Nord, invece, la competizione sarà durissima per Montecitorio come per Palazzo Madama: è nel Settentrione, infatti, che si deciderà se il centrodestra (sia pure lontano dall'ottenere la maggioranza dei seggi da solo o persino in alleanza) finirà per essere a "trazione" leghista o azzurra.