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24 aprile 2024
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L’antisemitismo contagia gli inglesi

Giulia Guazzaloca - 12.02.2015
YouGov - Report sull'antisemitismo

Inchieste shock sull’antisemitismo in Gran Bretagna                 

 

È vero che nella moderna storia britannica l’antisemitismo è stato presente sempre e in tutti i settori della società, sebbene in forme meno aspre e pervasive rispetto all’Europa continentale, e la più recente storiografia ha ormai sfatato anche il «mito» della tolleranza degli inglesi nei confronti della comunità ebraica. Nondimeno, i risultati di alcuni sondaggi e inchieste condotti all’inizio di quest’anno hanno suonato un preoccupante campanello d’allarme circa il radicamento dell’antisemitismo nel Regno Unito.

Un’indagine eseguita qualche settimana fa da YouGov per la Campaign Against Antisemitism ha rivelato infatti che il 45% dei cittadini nutre sentimenti antisemiti, nella forma dell’adesione ai più comuni pregiudizi e stereotipi riguardanti gli ebrei. Ad esempio, il 25% condivide l’idea che essi «bramino il denaro più degli altri britannici»; uno su cinque ritiene che la lealtà degli ebrei verso Israele li renda «meno leali al Regno Unito»; il 13% pensa che «gli ebrei parlino troppo dell’Olocausto» e, circa uno su sei, che esercitino «troppo potere nei media». Dati «scioccanti» secondo gran parte della stampa britannica, ai quali ha immediatamente risposto il ministro degli Interni Theresa May dicendo, durante una cerimonia in ricordo delle vittime degli attacchi terroristici di Parigi, che la Gran Bretagna deve raddoppiare gli sforzi per «spazzare via l’antisemitismo». Ma molto meno sorprendenti per i leader delle comunità ebraiche britanniche, che da tempo vanno denunciando le preoccupazioni e il crescente malessere della popolazione ebraica, e persino il timore per il proprio futuro a medio termine nel paese. «Non mi sono mai sentito tanto a disagio nell’essere un ebreo nella mia nazione come in questi ultimi 12 mesi» – ha dichiarato recentemente il direttore di BBC News Danny Cohen.

Un disagio, quello degli ebrei britannici, confermato da un altro sondaggio commissionato sempre dalla CAA e condotto dal 23 dicembre all’11 gennaio (conclusosi quindi dopo le stragi di Parigi), secondo cui il 54% degli ebrei interpellati ritiene di non avere futuro in Gran Bretagna e il 58% addirittura in Europa, mentre il 25% ha ammesso di aver ipotizzato di lasciare il paese nel corso degli ultimi due anni. «Non ho mai pensato – ha detto il ministro May – che avrei visto il giorno in cui i membri della comunità ebraica affermano di aver paura di rimanere nel Regno Unito». A diffondere questo clima di insicurezza nelle comunità ebraiche inglesi ha inciso indubbiamente il trauma degli eventi di Parigi ma anche, e forse soprattutto, il preoccupante aumento degli atti di antisemitismo nel corso del 2014: che hanno infatti raggiunto un livello record mai toccato prima.

 

Violenze e attacchi antisemiti raddoppiati nel 2014                    

 

Secondo le stime della Community Security Trust, associazione che si occupa della tutela della comunità ebraica in Gran Bretagna, gli incidenti antisemiti – danni alle proprietà, abusi, minacce, violenze verbali ecc. – nei confronti dei 291.000 ebrei britannici sono stati l’anno scorso ben 1.168 contro i 535 nel 2013. Dati confermati sostanzialmente anche dal corpo di polizia. Il report della CST registra 81 attacchi violenti alle persone e altrettanti episodi di danneggiamento e profanazione delle proprietà ebraiche, e 884 casi di comportamento abusivo e offese antisemite, la maggior parte dei quali avvenuti sui social media o in luoghi pubblici alla presenza di persone coi tradizionali costumi ebraici. Il picco – secondo un trend generale che vede l’antisemitismo schizzare a livelli massimi col riaccendersi del conflitto israelo-palestinese – si è verificato nei mesi di luglio e agosto 2014, dopo l’attacco di Israele sulla Striscia di Gaza: solo a luglio gli incidenti sono stati 314, più di uno al giorno e più del numero complessivo registrato nei sei mesi precedenti.

Ad essere colpiti sui social network sono stati anche diversi esponenti politici: come Ed Miliband, in occasione della pubblicazione di un suo articolo sulla memoria dell’Olocausto, e soprattutto Luciana Berger, laburista, ministro del governo-ombra e in passato leader del Labour Friends of Israel, alla quale sono arrivati su Twitter oltre 2.500 messaggi di odio (segnati con l’hashtag #Hitlerwasright e #filthyjewbitch). E il premier Cameron, oltre ad incontrare i leader delle comunità ebraiche e a promettere il pugno duro contro razzismo e antisemitismo, ha anche promesso che, in caso di vittoria alle elezioni il prossimo maggio, saranno varate leggi più severe e stringenti sia in materia di anti-terrorismo, sia per il monitoraggio dei contenuti su internet.

 

Un problema aperto, non solo in Gran Bretagna           

 

L’inasprirsi del conflitto israelo-palestinese, il terrorismo jihadista, i tragici fatti di Parigi hanno drammaticamente riaperto la ferita, mai del tutto chiusa, dell’odio antisemita, proprio in occasione del settantesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. E tutti, leader politici e religiosi a cominciare da papa Francesco, hanno ammesso che l’antisemitismo è ancora vivo e settant’anni dopo l’Olocausto le comunità ebraiche in Europa si sentono di nuovo minacciate. Il problema è grande, in parte nuovo, in parte radicato profondamente nella cultura europea, e il dibattito, a tutti i livelli, è ampio e controverso.

C’è chi parla di «globalizzazione dell’antisemitismo», fenomeno tanto europeo quanto statunitense, che deriverebbe dall’equazione fra ebrei e israeliani e dunque, di fatto, dall’avversione per le politiche di Israele e dalla mancata differenziazione tra le varie anime e componenti del popolo ebraico. C’è chi tende a circoscrivere l’antisemitismo agli immigrati di religione islamica; il leader dello UKIP Nigel Farage, dopo gli eventi di Parigi, ha tuonato infatti contro la «quinta colonna» del terrorismo islamico che opera nei paesi dell’Europa e ha invitato tutti i leader europei ad essere «più coraggiosi nel difendere la nostra cultura giudaico-cristiana». E sono in molti in Gran Bretagna – non da oggi e non solo fra i sostenitori delle posizioni anti-immigrazione del partito di Farage – a ritenere che il multiculturalismo, come modello d’integrazione liberale ed inclusivo, sia sostanzialmente fallito.

Troppo spesso poi, come è successo nelle ultime settimane, questi complessi problemi diventano oggetto di semplificazioni e strumentalizzazioni per fini politici; così, ad esempio, si finiscono per assimilare le azioni degli jihadisti e degli islamisti radicali con gli episodi, pur deplorevoli e da sanzionare, di intolleranza anti-ebraica. Un errore stigmatizzato da diversi intellettuali britannici, anche ebrei, in riferimento all’ondata di antisemitismo registrata ultimamente. E se si devono moltiplicare gli sforzi – politici, militari, di intelligence – per prevenire gli attacchi terroristici e combattere l’estremismo islamico, tutt’altra deve essere la strada per sconfiggere l’antisemitismo, gli odi razziali e la stessa islamofobia. Una strada, lunga e faticosa, che non può essere altro se non la diffusione e il potenziamento dei valori di libertà, tolleranza, rispetto per le differenze, secolarizzazione della vita pubblica: valori che la Gran Bretagna ha iscritti nella propria cultura politica ormai da oltre due secoli.