Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
Iscriviti al nostro Feed RSS

L’accordo sull’ambiente tra Cina e Stati Uniti: prove di un nuovo “bipolarismo regolato”?

Giovanni Bernardini - 13.11.2014
Accordo ambiente tra Cina e Usa

Le relazioni diplomatiche vivono spesso di dinamiche discontinue e largamente segrete, o peggio ancora vincolate a formalismi specialistici che il pubblico più vasto considera alla stregua di riti esoterici, noiosi e privi di suspense, dato che raramente i loro risultati sembrano avere conseguenze dirette per l’esistenza quotidiana. Eppure una conoscenza minima delle relazioni internazionali lungo l’arco del Ventesimo secolo fornisce prove di quanto gli aspetti simbolici siano talvolta più rivelatori rispetto ai contenuti delle discussioni, e di come gli apparati scenici e coreografici che circondano la stipula di accordi e convenzioni siano persino più gravidi di conseguenze dei loro contenuti. Dato che, come ricorda un vecchio adagio, gli stessi accordi rimangono dei “pezzi di carta” se non sono supportati dalla volontà delle parti di tenere fede agli impegni sottoscritti.

Sono queste le ragioni che potrebbero conferire un surplus di significato storico all’accordo bilaterale sottoscritto dal Presidente statunitense Barack Obama e dal Presidente cinese Xi Jinping, che vincola i rispettivi paesi alla riduzione delle emissioni responsabili dell’effetto serra e dei mutamenti climatici. Un accordo che, vale la pena di sottolineare, può costituire “una pietra miliare” (secondo le parole dei protagonisti) ma che di certo rimane ben lontano dal fornire quelle risposte definitive e radicali chieste pochi giorni fa dagli scienziati di 194 paesi per evitare l’irreversibilità del deterioramento attuale. Dunque non è tanto nel merito che va ricercata la novità dell’evento, quanto nei suoi aspetti formali. Sappiamo oggi che nove mesi di negoziati segreti hanno trovato una conclusione favorevole grazie a due giorni di incontri al vertice, che l’intesa sarebbe anche il risultato di un feeling senza precedenti tra i due attuali leader, e che i suoi contenuti sono proposti dalle parti come propedeutici per i negoziati multilaterali del prossimo anno. D’altro canto il testo del comunicato congiunto prende atto che “Cina e Stati Uniti devono rivestire un ruolo cruciale nel combattere il cambiamento climatico globale, una delle peggiori minacce che l’umanità si trova a fronteggiare”, e che il loro presunto antagonismo deve cedere il passo a una “collaborazione costruttiva per il bene comune” a fronte della “serietà della minaccia”. La suggestiva formula diplomatica nasconde ma non cancella l’evidenza che i due paesi costituiscono oggi tanto le due principali potenze mondiali, quanto i due maggiori agenti inquinatori del pianeta, responsabili insieme per più di un terzo delle emissioni di gas.

 

Oltre ad augurarsi per il bene del pianeta che l’intesa contribuisca davvero a portare risultati concreti, e ad auspicare che l’opinione pubblica mondiale chieda che si faccia di più, meglio e più in fretta, agli osservatori non rimane che segnalare similitudini interessanti sul piano simbolico e retorico con una fase che mezzo secolo fa cambiò in qualche modo i rapporti tra le due Superpotenze di allora, Stati Uniti e Unione Sovietica. L’inizio degli anni ’60 del secolo scorso è considerato comunemente (e a ragione) uno dei momenti in cui il confronto est-ovest rischiò di sprofondare l’umanità intera nell’incubo della distruzione nucleare a causa della crisi missilistica di Cuba. Secondo molte interpretazioni autorevoli, la contemplazione di quell’abisso e dei suoi incommensurabili costi umani e materiali contribuì a ricondurre alla ragione le parti in causa, spingendole a ricercare linguaggi e principi condivisi, e a stabilire una sorta di “codice di condotta” per un confronto globale che pure esse non avevano alcuna intenzione di abbandonare. Un primo e poco più che simbolico risultato fu raggiunto già nel 1963 con il Trattato che inaugurava una parziale messa al bando dei test nucleari, elaborato dalle due Superpotenze ma che queste ultime chiedevano anche agli altri paesi di rispettare. Molti anni trascorsero prima che si giungesse al famoso “Trattato di Non Proliferazione Nucleare” (1968), poi agli accordi per la limitazione degli armamenti nucleari strategici (1972) e finalmente per la loro riduzione progressiva (1991) quando ormai quel confronto bipolare era giunto al tramonto. Si trattò di un negoziato certamente pieno di errori tecnici, sottovalutazioni, inversioni di tendenza, pause, non esente da critiche e atti di insubordinazione da parte di chi lo riteneva un abuso di potere da parte di Washington e Mosca. Eppure un dato sembra incontrovertibile: discutere del rischio nucleare contribuì a sensibilizzare le classi politiche e l’opinione pubblica sui rischi che esso implicava, e ad allontanare lo spettro che ogni prova di forza si risolvesse nelle estreme conseguenze. Il mancato uso delle armi atomiche non solleva i principali responsabili della Guerra Fredda dalle loro responsabilità per distorsioni e tragedie per la vita internazionale (molte guerre convenzionali con il coinvolgimento delle superpotenze continuarono ad affliggere il pianeta). E tuttavia quel risultato minimo non è certo trascurabile in termini assoluti.

 

È certamente presto per dire se un nuovo “equilibrio bipolare regolamentato” emerga già con chiarezza dall’accordo di Pechino, dalle sue formule volutamente evocative di una parità di responsabilità tra Cina e Stati Uniti pure all’interno di una crescente competizione globale. Ed è certo prematuro, per quanto suggestivo, assimilare le immagini della passeggiata notturna e solitaria di Obama e Xi nella “Città Proibita”, che i media cinesi hanno sapientemente rilanciato, ai brindisi in barca tra Nixon e Breznev che suggellarono la breve stagione della Distensione negli anni ’70. D’altro canto, la prima sfida di un simile dialogo, come fu per quello tra Mosca e Washington, sarà sopravvivere alle alterne vicende dei protagonisti odierni a cominciare dal prossimo termine della presidenza Obama. Eppure la fame di buone notizie per l’ambiente, che rappresenta una cifra dei nostri tempi, spinge quantomeno a sperare che quel precedente costituisca un buon viatico per il futuro prossimo.