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Il voto di Belfast sfida la Brexit

Massimo Piermattei * - 08.03.2017
Michelle O' Neill

Per Theresa May, che sta affrontando il non facile compito di condurre la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea ed è impegnata ormai da mesi nel duro confronto con la First minister scozzese Nicola Sturgeon, si apre un nuovo fronte. Stavolta a Belfast, dove le elezioni dello scorso 2 marzo hanno sancito il clamoroso successo del Sinn Féin. Soprattutto in termini di rapporti di forza con l’altro principale partito nord irlandese, il Democratic Unionist Party (il gap tra le due forze politiche è sceso a un solo seggio) e di prevalenza del blocco “nazionalista” su quello unionista – seppur di strettissima misura.

Le elezioni si sono rese necessarie in seguito alle dimissioni dell’esponente di Martin McGuinness, Deputy First Minister per il Sinn Féin, dall’esecutivo che guidava l’Irlanda del Nord, in polemica con la First Minister unionista Arlene Foster sui “Renewable Heat Incentive”, provvedimenti in materia di energia. La particolare autonomia nel Regno Unito del governo nord irlandese si basa,infatti, sul power sharing, cioè la condivisione del potere esecutivo tra i due partiti usciti più forti dalle urne – un escamotage inventato nel 1998, con il Good Friday Agreement, per risolvere l’eterno dualismo tra le forze repubblicane e quelle unioniste e rafforzare così il processo di pace. Se una delle due forze ritira la fiducia all’esecutivo, in altre parole, si deve andare a elezioni. Questo sistema, che ha funzionato discretamente soprattutto negli ultimi dieci anni, ha fatto compiere progressi alla lotta politica, ma non alla società nordirlandese nel suo insieme, ancora fortemente divisa tra cattolici e protestanti (dalle scuole ai quartieri che viaggiano spesso su binari paralleli tracciati dalle cosiddette peace-line).

Tuttavia, nonostante la rilevanza dei Renewable Heat Incentive, l’ipotesi di nuove elezioni aveva cominciato ad affacciarsi già all’indomani del referendum sulla Brexit. Il voto nell’Irlanda del Nord aveva aspramente contrapposto gli unionisti, favorevoli all’uscita del Regno Unito dall’Ue, al Sinn Féin - quest’ultimo sostenitore del Remain. Gerry Adams, presidente dei repubblicani, già nel corso della campagna referendaria aveva “minacciato”, in caso di vittoria dei Brexiters, di avanzare la proposta di un referendum per la riunificazione con la Repubblica d’Irlanda - possibilità prevista dagli accordi del 1998. La più che significativa vittoria del Remain (56%) lasciava dunque presagire che l’esito della consultazione avrebbe avuto a Belfast (così come a Edimburgo)pesanti ripercussioni interne: “It’s a vote for Irish unity, a vote for us together as a people”, come ha dichiarato lo stesso Adams.

Le dimissioni di Martin McGuiness, aggravate dalle notizie sul suo stato di salute, hanno portato lo Sinn Féin a optare per una rivoluzione interna che, forse, è stato il punto decisivo: Gerry Adams, presidente del partito dal 1983, ha deciso di dimettersi per fare spazio a Michelle O’Neill, quarantenne, donna, non invischiata direttamente nei Troubles e nella lotta armata (pur provenendo da una famiglia che ne era stata toccata). Il messaggio che lo Sinn Féin voleva inviare nella campagna elettorale non poteva essere più chiaro: “This election”, ha dichiarato la O’Neill, “is not about orange and green issues, it’s not about the politics of fear, it’s about the future”.
Quelle del 2 marzo sono state dunque elezioni importanti, si è detto, per i rapporti interni al sistema partitico e istituzionale dell’Irlanda del Nord (la formazione di un nuovo esecutivo appare tuttora difficile e incombe l’ombra di ulteriori elezioni o, peggio, del ripristino delladirect rule da Londra). Ma anche perché hanno visto rafforzarsi alcuni trend come l’aumento del numero di donne elette all’Assemblea di Stormont, provenienti prevalentemente dalle file dello Sinn Féin (41% dei seggi vinti sarà ricoperto da donne) e dal partito socialdemocratico (33%), meno dagli unionisti (21%).

Ma, appunto, quelle nord irlandesi sono state elezioni importanti soprattutto in relazione alla Brexit. Alla critica tenace di Nicola Sturgeon contro il governo di Londra, accusato di non tutelare gli interessi della Scozia, si affiancano i malumori di Belfast (e Derry) frutto delle peculiarità del contesto nord irlandese: i Troubles e il rapporto con l’Eire. Ed è proprio questa differenza tra il “fronte” scozzese e quello nord irlandese a rendere quest’ultimo, per alcuni versi, più problematico.

In particolare, a preoccupare è la possibile ri-costituzione di un confine tra la Repubblica d’Irlanda e il Regno Unito (confine che era stato invece cancellato, di fatto, dall’avvento del mercato unico e dagli accordi del Venerdì Santo),con tutte le ripercussioni sociali, politiche ed economiche che ne deriverebbero: si pensi alla delicata situazione in cui si verrebbero a trovare le migliaia di cittadini dell’Irlanda del Nord che, sfruttando un diritto previsto dagli accordi del 1998, hanno preso il passaporto irlandese oppure alla dualità tra le due economie.

Intanto, il Taoiseach Enda Kenny ha reso chiara la posizione del governo di Dublino: la trattativa sulla Brexit dovrebbe prevedere la possibilità, per l’Irlanda del Nord, di rimanere nell’Unione europea anche attraverso la riunificazione con la Repubblica. Insomma: è concreto il rischio che la “global Great Britain” ostentata dalla May come florida alternativa rispetto all’appartenenza della Ue perda “pezzi” o veda risorgere problemi che proprio la partecipazione al processo d’integrazione europea sembrava aver avviato a soluzione.

 

 

 

 

Professore a contratto Università della Tuscia