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Il primo turno delle legislative 2017 ovvero l’assegno in bianco firmato a Macron

Michele Marchi - 14.06.2017
La France Insoumise

Se si osservano le reazioni dei principali media italiani (meno quelli francesi in realtà) il primo turno delle elezioni legislative non è stato altro che la conferma del trionfo del 7 maggio. E da un punto di vista numerico probabilmente dopo il secondo turno di domenica prossima il successo del giovane presidente francese sarà imponente. Le stime, piuttosto realistiche, parlano di almeno 400 deputati per La République en marche!, ben più dei 289 necessari per avere la maggioranza assoluta.

È certo possibile porsi qualche domanda su solidità ed esperienza del nuovo personale che siederà all’Assemblea nazionale. Allo stesso modo ci si può interrogare sull’astensionismo record: domenica 11 giugno più di un francese su due ha deciso di non recarsi alle urne. Resta però che la debacle dei due partiti cardine della Quinta Repubblica e i risultati con più scuri che chiari di estrema destra ed estrema sinistra sono evidenti.

Per quanto riguarda il PS l’impressione è la conferma di ciò che si era già tratteggiato a fine aprile dopo il primo turno delle presidenziali. Si è chiusa la lunga sequenza apertasi ad Epinay nel 1971 e dominata dalla figura di François Mitterrand. L’hollandismo, se interpretato in quest’ottica, è stato solo il tentativo di perpetrare quel modello e di unirlo ad un vero e proprio anti-sarkozysmo strutturale. Macron sembra aver operato nei confronti del PS come Mitterrand aveva operato nei riguardi del PCF. Il voto al PS non è più considerato di sinistra (La France Insoumise è la vera sinistra, mentre la sinistra moderata e riformista è La République en marche!), né tanto meno è considerato un voto utile (quello è il voto dato al partito del Presidente). È vero che il PS ha ancora strutture, risorse e una buona base di militanti e di eletti locali, ma i tempi della traversata del deserto a rue Solférino sono iniziati.

Se nel PS piangono, Les Républicains si trovano in una valle di lacrime. Il 21% su scala nazionale (in termini di voti metà esatta di quelli raccolti da Fillon) è un risultato modesto e mostra che l’affaire Fillon è stato solo una delle ragioni della debacle presidenziale. I post-gollisti perdono terreno nelle terre tradizionali (ad est, a sud e a Parigi) e soprattutto sembrano perdere il voto delle classi medie e della borghesia liberale. La classe dirigente è ancora sospesa al post Sarkozy, incapace di una scelta tra la via neo-liberale (ora sempre più complicata da percorrere, perché presidiata da Macron) e la svolta ideologica e identitaria (sulle terre del FN, per dirla con le parole di P. Buisson). I molti ballottaggi di domenica prossima tra candidati République en marche! e candidati LR assomigliano ai duelli delle scorse regionali, con una differenza sostanziale. In quel caso lo scontro fu tra post-gollisti e frontisti e parte dell’elettorato di sinistra scelse la logica del “fronte repubblicano”, favorendo il candidato LR. In questa occasione difficilmente ci si può immaginare un numero importante di elettori socialisti che tra un candidato di Macron e uno della destra repubblicana, opti per quest’ultimo.

Per quanto riguarda La France insoumise e il FN si può fare una parte di riflessione comune. In entrambi i casi è confermata la capacità di attrazione dei due rispettivi leader nazionali e la debolezza relativa dei candidati scelti nei singoli collegi. Il parallelismo si ferma qui. E questo perché il movimento di Mélenchon, seppur fermatosi all’11% su scala nazionale, comincia ad accreditarsi come vera (e sola?) opposizione di sinistra di fronte ad un PS in disarmo. Da questo punto di vista sarà interessante e simbolicamente importante vedere il numero di deputati eletti della France Insoumise.

Il FN dal canto suo subisce, dopo il mezzo successo delle presidenziali, una chiara battuta d’arresto. Quasi certamente gli eletti non saranno sufficienti per formare un gruppo parlamentare, ma soprattutto la leadership di Marine Le Pen, ma anche quella potenzialmente alternativa di Philippot, saranno pesantemente contestate dalla sera del 18 giugno prossimo.

Ebbene nonostante tutto ciò l’assegno consegnato a Macron dai pochi francesi che si sono recati alle urne l’11 giugno più che bianco è un assegno in grigio.

E questo per alcuni motivi ben evidenti, se si osserva con un minimo di distacco il primo turno.

L’astensionismo è impressionante. Già nel 2012 aveva superato il 45%, ma la barra del 50% è, anche da un punto di vista simbolico, davvero significativa. Quello che si profila all’orizzonte, facendo attenzione a non dimenticarsi che la partita ha ancora un secondo tempo, è qualcosa a metà strada tra il “voto di adesione” al presidente, secondo la logica del “forniamogli tutti gli strumenti  per intervenire in profondità nella crisi francese” e un meno entusiastico “lasciamolo fare”, poiché l’altra alternativa è quella di “gettarsi nelle braccia del populismo classico di estrema destra e/o di estrema sinistra”. Il punto è che oltre il 50% dei francesi ha optato per una sorta di “né….né”, cioè né con il presidente neo-eletto, né con chi vi si vuole opporre, creando un bacino sempre più largo di potenziale risentimento sociale, misto a sfiducia cronica per nulla rassicuranti con all’orizzonte il rischio attentati e un quasi certo autunno caldo, considerata la riforma del lavoro all’orizzonte.

Come molti hanno osservato il vero clivage del voto di domenica scorsa è stato “nuovo contro vecchio”. La campagna elettorale è stata priva di temi forti mobilitanti e molti dei candidati de La République en Marche! sono degli illustri sconosciuti non solo per gli addetti ai lavori della politica, ma anche per la maggior parte dell’opinione pubblica. Il primo e più potente criterio di selezione è parso a questo punto il “nuovo”.

Attenzione però ancora una volta ai dati, che un minimo di importanza la hanno. E i numeri non sono per nulla travolgenti per il presidente. Nel senso che il 32% (che corrisponde a poco più di sei milioni di voti) ottenuto da La République en marche! non è uno score clamoroso. Qualche esempio può chiarire meglio il quadro. Mitterrand nel 1981, a seguito della sua storica vittoria, sciolse l’Assemblea nazionale e il solo PS (senza gli alleati radicali e comunisti) ottenne il 36% (con i votanti oltre il 70%). Ma per arrivare ad elezioni più vicine a noi, nel 2007 Sarkozy e nel 2012 Hollande arrivarono vicini al 40%.

In definitiva quella di Macron, se confermata domenica come ci si attende, è una vittoria netta e che fornisce all’inquilino dell’Eliseo tutti gli strumenti per avviare le principali riforme che dovrebbero riportare Parigi innanzitutto a riequilibrare l’asse franco-tedesco. Peraltro Macron potrà godere anche di una sorta di “semestre bianco”, poiché la Germania da settembre a dicembre sarà presumibilmente impegnata nelle elezioni e poi negli elaborati passaggi post-elettorali per la formazione del nuovo governo. Non si deve però celare il rovescio della medaglia e cioè le due grandi incognite che al momento attraversano la politica transalpina.

Punto primo: il momento Macron è strutturale o congiunturale? Cioè siamo in uno scenario simile a quello del 1958 e si va verso la completa ristrutturazione del sistema politico?

Punto secondo, direttamente legato a questo primo, Macron è pronto, ma meglio sarebbe dire, è in grado di strutturare un “macronismo”, cioè una visione di medio-lungo periodo per la Francia a livello economico-sociale e politico-istituzionale, all’altezza delle sfide che attendono Parigi, ma in generale l’Unione europea? In fondo il gollismo, e a seguire il mitterrandismo, hanno costruito (il primo più del secondo) e poi gestito l’evoluzione del Paese e il suo ruolo a livello europeo e mondiale. A partire dall’elezione di Chirac e poi dei suoi successori, gli inquilini dell’Eliseo hanno perso progressivamente il controllo del quadro interno e di conseguenza anche della proiezione internazionale.

A Macron e al macronismo l’arduo compito di invertire il trend.