Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Il corporativismo contro il cambiamento

Ugo Rossi * - 21.04.2015
Il corporativismo

Fino a qualche decennio fa la relazione tra rappresentanza degli interessi economici e mondo politico era lineare: l’imprenditore trasmetteva le sue istanze alla categoria di appartenenza. Quest’ultima le mediava, spesso le confrontava con le altre categorie, e infine il tutto arrivava al mondo politico. Oggi il ruolo delle categorie è fortemente ridimensionato e con sempre maggior frequenza l’imprenditore trasmette le sue istanze alla politica o direttamente, o indirettamente attraverso i mezzi di comunicazione di massa.

Nelle città medioevali e poi rinascimentali, per salvaguardare le arti e i mestieri nacquero le corporazioni cittadine, volte sia a mettere in risalto l’orgoglio d’appartenenza alla categoria, sia a difendere la professione dal suo depauperamento per eccesso di offerta. Nel corso del tempo la funzione mediatrice delle corporazioni si è allargata anche a molti altri ambiti, perfino dove non c’era una competenza specifica da salvaguardare e forse neppure un particolare orgoglio da affermare.

Oggi tutto questo si è ulteriormente complicato per due ragioni. Innanzitutto perché si è allentata la connessione, una volta stringente, tra studio e professione. Si studia architettura e si fa comunicazione; si studia giurisprudenza e si fa il dirigente pubblico; si studia filosofia e si lavora nel web marketing. Quando le competenze formative e le caratteristiche del lavoro sono così labili, la difesa di una professione è molto più difficile e talvolta impossibile. A ciò si aggiunga che l’appartenenza a una categoria o all’altra non è più delimitata da confini fissi, né per quel che riguarda il rapporto tra settori economici (non è raro trovare imprese terziarie nell’industria o viceversa), né per quel che riguarda le dimensioni dell’impresa (la piccola o grande dimensione non è un fattore discriminante nella scelta della categoria di appartenenza). Uno sfrangiamento complessivo che ha allentato la capacità di interpretare in modo autorevole e compatto le istanze delle basi associative di riferimento.

Una metamorfosi che ha prodotto conseguenze inattese, spesso problematiche. In primo luogo le organizzazioni pensano più a sé stesse che agli interessi di categoria. E questo non tanto per un eccesso di autoreferenza, comunque rischio non trascurabile, ma per l’incapacità di collegarsi in modo permanente e convincente con le istanze che dovrebbero rappresentare. In secondo luogo le organizzazioni di rappresentanza hanno progressivamente trasformato l’orgoglio di categoria, del tutto legittimo, anzi auspicabile, in arroccamento, in chiusura difensiva. E’ uno dei nodi più critici tra i molti che bloccano l’Italia. Ogni categoria tende a difendere le proprie prerogative; cerca di alzare (o mantenere) steccati per ottenere di più dalla situazione di maggiore o minore monopolio in cui si trova o si vorrebbe trovare. C’è un eccesso di legislazione amministrativa, richiesta per potersi difendere sul piano della legge piuttosto che su quello del mercato; si pretendono dalla politica legislazioni speciali, per assicurare il mantenimento delle posizioni acquisite.

Come uscire da questa impasse?

E’ evidente che la crisi della rappresentanza non può essere superata “ope legis”, con una norma in più in un coacervo giuridico già troppo complicato. Semmai si possono creare condizioni di contesto più favorevoli per quella ripresa di vitalità e di libertà di azione da più parti auspicata. Una soluzione potrebbe essere quella di semplificare in maniera drastica il mondo del lavoro, riducendo le tipologie e offrendo maggiori possibilità a tutti, perché il mercato ideale è quello che connette al meglio domanda e offerta, con un ruolo decrescente sia dei soggetti pubblici, sia della magistratura. Inoltre bisognerebbe sbloccare ogni impedimento all’accesso alle professioni, trasformando gli ordini professionali da strumenti di difesa delle corporazioni a strumenti di garanzia per il cittadino. Un ordine professionale serve se ha una funzione sociale, se rappresenta certezze per il cittadino, non se è utilizzato per impedire che altri cittadini possano svolgere un lavoro riservato solo ai suoi membri. Agendo in questo modo vengono penalizzati soprattutto i giovani, che da un lato partono da posizioni di obiettivo svantaggio, dovendo crearsi una clientela ex novo, spesso dal nulla; dall’altro trovano ostacoli che non sono fondati sulla capacità, ma sulle norme, sui regolamenti, insomma su fattori puramente amministrativi e burocratici.

Una sfida per la politica e per la sua capacità di ripensare non solo i sistemi normativi e regolamentari, ma anche il suo modo di rapportarsi con la società e con i suoi bisogni, evitando essa stessa di essere una corporazione in più. Ugualmente, e in termini altrettanto importanti, una sfida per i soggetti di rappresentanza che devono saper cogliere e interpretare il mondo che cambia, ponendosi come agenti evolutivi, facilitatori di un processo che deve sempre più avvicinare gli interessi di parte a quelli generali.

 

 

 

 

* Presidente della Provincia autonoma di Trento