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Il convitato di giada alle nuove nozze nippo-americane

Giulio Pugliese * - 07.05.2015
Abbraccio metaforico

Come accennato in un post precedente, la visita di stato del premier giapponese Abe Shinzō a Washington D.C. è stata foriera di iniziative di enorme rilevanza per il futuro dell’Asia-Pacifico. A 55 anni dal tortuoso processo di ratifica del Trattato di Mutua Cooperazione e Sicurezza tra Stati Uniti e Giappone ad opera del primo ministro Nobusuke Kishi, il nipote Abe è convenuto con la controparte americana a nuovi vincoli matrimoniali in occasione delle nozze d’avorio del medesimo trattato. La sottoscrizione di nuovi principi guida (guidelines) delinea nuove responsabilità per i due alleati, aggirando il macchinoso iter legislativo atto a ratificare ciò che, di fatto, si avvicina ad un nuovo trattato di alleanza. Così le due parti hanno deciso di perseguire una maggiore cogestione, inter-operabilità e modernizzazione delle rispettive forze armate. Forte del recente cambio dell’interpretazione dell’Articolo IX della costituzione nipponica, in base al quale Tokyo si è dotata dell’esercizio (limitato) del diritto di legittima difesa collettivo, con i nuovi principi guida il Giappone giocherebbe un ruolo di prima linea nella difesa dell’arcipelago e si potrebbe incaricare di supporto logistico a forze americane e amiche quali l’Australia a livello globale. Un più attivo contributo giapponese alla sicurezza internazionale rendeva quindi la partnership nippo-americana più paritaria, adattandola alle nuove e future sfide di sicurezza, in primis la rapida ascesa della Cina sulla scacchiera asiatica.

Esigenze diplomatiche imponevano ai due governi di ripetere che le linee guida non prendessero di mira alcuno stato in particolare, ma va sicuramente riconosciuta nella Cina di Xi Jinping il convitato di pietra responsabile per l’affiatamento della strana coppia Abe-Obama. Invero, Stati Uniti e Giappone miravano ad aumentare le rispettive capacità di dissuasione e deterrenza contro una Cina, che da fine 2009 in poi appariva sempre più assertiva nel perseguimento delle proprie rivendicazioni territoriali. E senza citare l’Innominato, la coppia Abe ed Obama prometteva che “qualsiasi tentativo di cambiamento dello status quo attraverso l’uso della forza sarà contrastato; gli attori regionali devono rendersi conto di tale aspetto (delle guidelines).” Similmente, l’applaudito discorso di Abe al Congresso riunitosi in seduta plenaria, intitolato «Toward an alliance of hope», non menzionava mai la Cina per nome, se non in contrapposizione alle numerose speranze di stabilità, di risoluzione pacifica delle controversie, di rispetto del diritto internazionale e di affrancamento democratico di cui la partnership nippo-americana prometteva di farsi foriera. Certo è che l’insistenza di Abe sui valori democratici non nasceva da un radicato convincimento, ma da pragmatismo politico e da un nazionalismo identitario rivolto proprio contro la Cina. Invero, la «diplomazia dei valori» coincideva sia con le tradizionali inclinazioni americane, sia con il desiderio di enfatizzare la modernità politica del Giappone, la più antica democrazia asiatica. Non a caso, tale ideologia si è radicata negli anni in cui la Cina, pur rimanendo uno stato autoritario, ha superato il Giappone dal punto di vista economico.

 

Stesso letto, sogni diversi

 

Una volta passato il set di leggi attuative per la nuova interpretazione dell’Articolo IX, Abe prometteva quindi ad Obama un Giappone nel rinnovato ruolo di vice-sceriffo globale. Il “contributo attivo alla pace” (sekkyokuteki heiwa-shugi) del Giappone avrebbe meglio sostenuto il Pivot to Asia di un Obama impegnato su molteplici fronti. Nell’immediato, però, le nuove guidelines avrebbero ampliato le garanzie di deterrenza fornite dall’egida americana in funzione anti-cinese. Ad esempio, sarebbero dovute rientrare nelle possibili responsabilità d’ingaggio USA anche le cosiddette sfide da «zona d’ombra», ovvero emergenze alla sicurezza nazionale che non costituivano un vero e proprio attacco armato. Tali emergenze includevano la conquista di territori contesi ad opera di forze para-governative, come avvenuto nel 2012 con l’appropriazione coatta di Pechino dell’atollo di Scarborough ai danni delle Filippine, soprattutto grazie all’utilizzo di numerosi “pescherecci” cinesi.

Eppure, una lettura attenta del testo dei nuovi principi guida ritrova sì menzionati i numerosi meccanismi di coordinamento dell’alleanza per meglio gestire le sfide in tempo di pace e quelle in divenire, senza però ravvedere un linguaggio particolarmente deciso circa le cosiddette «zona d’ombra.» D’altronde, se gli Stati Uniti di Obama rimanevano timorosi di rimanere invischiati in un conflitto sino-giapponese sulle isole Senkaku/Diaoyu, il Giappone firmava più stretti vincoli matrimoniali rimanendo concentrato sulla scacchiera regionale, dominata dalla sfida cinese, anziché su quella globale come voluto da Obama. Inoltre, Tokyo era consapevole del rischio di rimanere invischiata, a sua volta, in un possibile futuro conflitto che coinvolgeva il bellicoso alleato.

 

Il primato della politica (di potenza) sulla storia

 

Un altro punto di dissenso tra la coppia Obama-Abe rimaneva la questione del retaggio revisionista del premier giapponese, che rischiava di riaccendere le animosità nippo-cinesi dopo i timidi segnali di détente dei mesi addietro. Dietro le quinte, Obama quindi chiedeva ad Abe di evitare passi falsi sulla spinosa questione della storia. Di contro il Congresso USA permetteva ad Abe di menzionare le tragedie della seconda guerra mondiale, senza che questi si scusasse direttamente circa le aggressioni ed i mali commessi dal colonialismo giapponese. Di contro, il governo giapponese inscenava una stretta di mano riconciliatoria tra un vecchio reduce di guerra americano e il discendente di un generale giapponese di stanza ad Iwo Jima. Anche qui, il messaggio di riconciliazione che guardava al futuro era implicitamente indirizzato a Pechino e Seoul, per rimarcarne l’oltranzista atteggiamento vittimistico.

Nonostante le mancate scuse per la sventurata esperienza imperiale, il dettaglio molto interessante rimaneva la chiara volontà politica di Pechino di approfondire la timida détente rappresentata dal gelido incontro tra Abe e Xi  ai margini del vertice APEC del novembre 2014, come dimostrato dal secondo incontro al vertice ai margini dell’Asia-Africa Summit di Bandung. A giudizio di chi scrive, il rapprochement di Xi nei confronti di Abe dipendeva proprio dalle nuove guidelines e dal rinnovato patto di alleanza nippo-americana: la politica di potenza perseguita con forza da Abe ammorbidiva con successo Pechino, nonostante un processo di riconciliazione rimanesse imprescindibile per la stabilità politica delle relazioni nippo-cinesi nel lungo periodo.

 

 

 

 

* Assistant Professor presso l’Istituto di Studi Cinesi dell’Università di Heidelberg e membro del Think Tank Asia Maior”.