Il centrodestra "plurale"
La moltiplicazione delle candidature di centrodestra e destra a Roma rappresenta efficacemente lo stato attuale di disgregazione di un "polo" (la ex Cdl) che ha governato il Paese per circa nove anni e che ha sempre avuto percentuali di voto nazionali complessivamente superiori al 40% dei suffragi (se non prossime al 50%) fino al "terremoto elettorale" del 2013, quando la coalizione di Berlusconi perse milioni di voti ma si fermò, col suo 29,2%, ad un passo dal 29,5% del centrosinistra di Bersani, fallendo così la conquista del premio di maggioranza alla Camera dei deputati. Per anni, sia pure in presenza di due leader promotori di istanze diverse fra loro come Fini e Bossi (e dei rispettivi partiti) il centrodestra è sempre stato tenuto insieme da Berlusconi. Il Cavaliere riuscì addirittura a costruire la sua prima coalizione vincente, nel 1994, alleandosi con il Carroccio al Nord e con An nel centrosud: allora il "senatur" non voleva prendere con Fini "neppure un caffè" (salvo, poi, allearsi dopo il voto per dar vita al primo governo Berlusconi, durato pochi mesi). Il centrodestra disegnato dal Cavaliere e capace di vincere tre elezioni politiche (1994, 2001, 2008) aveva un leader incontrastato, una pluralità di forze politiche (dai neodemocristiani di Casini ai postmissini di Fini, passando per i leghisti di Bossi) ma soprattutto era incentrato su un partito egemone, Forza Italia. Gli "azzurri" avevano ciò che i loro alleati non possedevano: un numero di voti molto più rilevante dell'Udc, un radicamento territoriale nazionale e non solo limitato al Nord (la Lega non ha mai mietuto successi nel Centrosud) e un legame con il Partito popolare europeo che poteva consentire ad An (e agli ex missini) di "sdoganarsi" dopo decenni di esclusione dall'arco costituzionale entrando a pieno titolo fra le forze di governo. Ancora molti anni dopo la nascita del centrodestra, nel 2008, la Cdl poteva permettersi di “snellirsi”, senza perdere forza: la "svolta del predellino" lasciò fuori Casini ma non Fini, altrimenti verosimilmente la coalizione berlusconiana non avrebbe avuto i voti per battere quella di Veltroni (il "piccolo centrosinistra" Pd-Idv). In quella occasione, a Bossi fu concessa una sorta di clausola "opting-out", perchè mentre le forze della coalizione di centrodestra confluivano nel Pdl, la Lega ottenne di poterne restare fuori (con un vantaggio elettorale per il Carroccio, ma in fin dei conti per l'intera coalizione che così avrebbe "diversificato" l'offerta). Un cemento formidabile per tenere insieme il centrodestra era, inoltre, la vittoria: le elezioni del 1996 dimostrarono che quell’area, divisa, non poteva avere un futuro, ma che – unita – avrebbe potuto battere abbastanza agevolmente il centrosinistra. Quell’anno la Lega corse per conto proprio, ottenendo pochi seggi e dovendo rinunciare ben presto alle speranze secessioniste, mentre il resto della futura Cdl fu sconfitto dall’Ulivo (grazie anche alla “desistenza” di Rifondazione comunista). Avendo un leader capace di trainare la coalizione, disponendo di un "appeal mediatico" forte e della capacità federatrice delle varie anime già allora ben vive e varie, la Cdl si dimostrò molto efficiente nella competizione col centrosinistra. Se oggi distinguiamo fra le varie anime del “popolo” della ex Cdl troviamo elettorato neodemocristiano (in parte uscito dal “polo” di centrodestra seguendo Alfano e Casini), moderato (con Berlusconi), di destra (nella doppia variante di quella "nazionale" della Meloni e della "simil lepenista" di Salvini) e ci accorgiamo che anche dieci o venti anni fa avevamo un centrodestra plurale diviso almeno in tre o quattro grandi famiglie: i centristi che guardavano a destra, i moderati, i conservatori, la destra estrema. Ai tempi delle elezioni col “Mattarellum” (1994-2001) c'era una tale diversità di posizionamento politico che nei collegi uninominali difficilmente i leghisti votavano per un candidato centrista (e viceversa): anche per questo, Berlusconi preferì passare ad un modello con premio di coalizione centrato sulla figura del candidato a Palazzo Chigi. Il "Porcellum" eliminava l’uninominale col plurality system, cioè l’elemento più pericoloso del vecchio meccanismo elettorale. Nei collegi, infatti, era rischioso candidare alcuni esponenti politici che l'elettore più estremo (di centro o di destra) della Cdl avrebbe potuto rifiutarsi di votare. Col "Mattarellum" il centrosinistra otteneva sempre percentuali maggiori nei collegi (dove si assegnava il 75% dei seggi) che nel voto di lista. Ma c'era di più: nella strategia berlusconiana era ben chiaro che la diversità di vedute fra gli elettori della coalizione avrebbe potuto essere sfruttata – con un diverso sistema elettorale - anzichè subita. La Cdl, così, divenne una sorta di "supermercato politico" dove ognuno poteva trovare un partito a lui affine, dal centro fino all'estrema destra. Anche quando si passò al "partito unico del centrodestra" (il Pdl) si evitò la fuga di consensi proprio lasciando alla Lega (al Sud, in parte, al Mpa) il compito di rappresentare l'altra scelta possibile. Le forze residue fuori dalla coalizione (l'Udc da una parte, la Destra dall'altra) non furono in grado, nel 2008, di sottrarre significativi consensi alla nuova Cdl (il partito di Casini si salvò, però, riuscendo ad entrare in Parlamento). Infine venne la crisi del 2011-2013, con l'uscita di Fini dal centrodestra, la sostituzione di Bossi nella Lega e la conclusione dell'esperienza di governo berlusconiana, seguita da una fortissima emorragia elettorale verso l'astensione, il voto a Monti e quello ai Cinquestelle. Nonostante tutto, sia pure con un leader fortemente indebolito e milioni di voti in meno, la Cdl aveva nel 2013 ancora quasi il 30% dei consensi popolari. Con la destra troppo debole sul piano elettorale, la Lega alle prese con una transizione difficile, il Pdl tornato Forza Italia e il Cavaliere condannato e privato del seggio senatoriale, nessuno aveva la possibilità o la volontà o, ancora, la forza per cambiare l'alleanza. Chi invocava primarie o voleva un indirizzo diverso - soprattutto nel campo "azzurro" - sceglieva percorsi fuori dalla Cdl (come Alfano e il suo Ncd, ad esempio, ma col passare del tempo anche Fitto e Verdini, come Tosi nella Lega). Il centrodestra, insomma, o ciò che ne restava, era (in parte è ancora) più debolmente confederato che unito, in una sorta di stato di necessità, costretto a subire la concorrenza del Pd di Renzi e del M5S. Oggi, in effetti, Democratici e Cinquestelle appaiono come i due soggetti politici più accreditati per disputarsi il premio di maggioranza dell'Italicum, anche se molti sondaggi spiegano che un listone di centrodestra sarebbe altrettanto competitivo. Il punto è che il vaso di Pandora dell'ex Cdl si è ormai aperto. La leadership trainante di Berlusconi era stata messa in discussione anche in passato (senza successo, perché il Cavaliere era ancora forte e unificante) ma ora è debole, fragile, esposta. Così diviso, il centrodestra non è la vecchia Cdl: chi vuole "scalarlo" non può pensare di prendersi tutto ma solo una parte più o meno rilevante, perché la “confederazione” è di fatto sciolta. Ormai il fossato fra le anime della coalizione l'hanno scavato gli elettori. Quelli di Forza Italia, ad esempio, sono molto meno anti-euro rispetto a quelli di Lega e FdI. E c'è di più: secondo un sondaggio Ipr pubblicato il 20 marzo dal Quotidiano Nazionale, il 40% dell'elettorato berlusconiano condivide "almeno in parte" le scelte del governo Renzi, contro il 3% dei votanti degli altri partiti del centrodestra; al referendum costituzionale, inoltre (sondaggio Demos per Repubblica del 21 marzo) la percentuale di “azzurri” favorevoli alla riforma renziana è seconda solo a quella che si registra nel Pd, ed è persino maggiore di quella dei votanti per Ncd, Sc e altri di centro (cioè di partiti governativi). C'è, poi, almeno una divisione insanabile: quella fra il 67% di Forza Italia che si colloca nel centrodestra (sempre secondo il sondaggio Ipr, sul continuum destra-sinistra) e il 62% dei leghisti (o l'82% dei sostenitori di FdI) che si dichiara di destra. La differenza non è nominalistica. Sempre secondo le rilevazioni statistiche Ipr, il 60% degli elettori di FdI e il 71% di quelli del Carroccio romperebbe l'alleanza con Berlusconi. È più che evidente, dunque, che quanto sta accadendo nella scelta dei candidati per le comunali non è affatto frutto del caso. La Lega di Salvini, passata dal 4% delle politiche al 6% delle europee, è ora accreditata (Emg e Swg: rilevazioni del 14 e 18 marzo) di una percentuale fra il 14 e il 15% dei voti, mentre FdI sembra intorno al 4-4,5%, poco lontano dal 5% che una volta era la soglia minima dei voti del Msi. Il tutto, mentre FI è ferma fra il 12,5% e il 13%. Nel complesso, insomma, il centrodestra non è più trainato dal Cavaliere (politicamente molto indebolito) e neppure dal suo partito (superato dal Carroccio e quasi doppiato dall'asse Meloni-Salvini). Soprattutto, in mancanza di responsabilità di governo comuni (va ricordato, peraltro, che Berlusconi è rimasto nell'area di maggioranza con Monti e in parte con Letta, mentre leghisti e destra sono all'opposizione da cinque anni) non c'è più neanche il "collante" di un'esperienza che invece aveva unito Bossi, Fini e Berlusconi, al di là delle differenze di opinioni. Infine, non c'è al centro del "progetto centrodestra" un programma accettabile dall'elettorato di tutta la ex Cdl. Se sul federalismo si poteva trovare un'intesa, oggi sembra più difficile conciliare la linea moderata di parte dell'elettorato di Forza Italia con quella anti-euro e anti-sistema delle destre di Salvini e Meloni. Quando si ipotizza che in un eventuale ballottaggio a Roma fra il candidato del partito Renzi (Giachetti) e la candidata del M5S (Raggi) l'elettorato di centrodestra si possa dividere fra il sostegno al primo (prevalentemente da parte "azzurra") e alla seconda (da leghisti e FdI) non si va molto lontano dal vero. Su alcune posizioni c'è più differenza fra Salvini e Berlusconi che fra la Meloni e i Cinquestelle. In mancanza di un "ricucitore" della coalizione, di un programma comune minimo accettabile, di un cartello elettorale che non faccia scappare i votanti "più estremi" (di centro o di destra) dell'ex Cdl, il terzo polo competitivo con Pd e M5S non ha molte speranze di essere edificato a breve e forse neppure in tempo sufficiente per le prossime elezioni politiche, anticipate o meno che siano. Col risultato che gli elettori di centrodestra - a meno di sorprese - si apprestano a tornare protagonisti, ma forse solo per scegliere se far governare il Paese (e, ancor prima, alcune grandi città) da un esponente del Pd o da uno dei Cinquestelle.
di Luca Tentoni
di Donata Frigerio *