Ultimo Aggiornamento:
17 aprile 2024
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Il calcio è fede. I due volti della sconfitta: Brasile e Argentina.

Claudio Ferlan - 15.07.2014
Calciatore

Alla fine sono tutti concordi: ha vinto il migliore. La Germania è campione del mondo, onore alla Germania. Ci mancheranno, questi Mondiali di calcio? A noi italiani probabilmente no, ma certo continueremo a parlarne. Al di là di tutte le annotazioni tecniche che lasciamo agli analisti sportivi, possiamo riflettere su quanto la Copa ci ha confermato: il calcio è una cosa seria, a certe latitudini perfino una religione. 

 

Il punto di vista del teologo.


Leonardo Boff, brasiliano, uno dei massimi esponenti della teologia della liberazione ha definito il calcio una “religione laica universale”, qualcosa che “per milioni di persone tiene il posto tradizionalmente occupato dalla religione”. E si è spinto poi a elencare una serie di correlazioni, talvolta un po’ forzate, talaltra assolutamente convincenti. Prima del fischio d’inizio si seguono “ritualizzazioni sofisticate”. Poi si gioca e “si odono invocazioni, canti, si piange di commozione, si fanno preghiere, si emettono voti, scongiuri e altri simboli della diversità religiosa brasiliana”. Capita di frequente che un bambino appena nato veda inconsapevole la propria culla bardata dei colori della squadra del padre. Con gli anni la sua inconsapevolezza si farà nella stragrande maggioranza dei casi piena coscienza perché, si suole dire, tutto nella vita può cambiare, eccetto la squadra del cuore.

 

Guerre di religione.


Sul quotidiano argentino “La Nación” il giornalista Pablo Sirvén ha scritto che la “Coppa della Fifa è la perfetta sublimazione di una guerra mondiale: i guerrieri sfoggiano i colori della patria e prima dello scontro cantano i propri inni. Il sentimento nazionale emerge all’ennesima potenza”. Come scrive Boff: “Nella religione esiste la malattia del fanatismo, dell’intolleranza e della violenza ai danni di altre espressioni religiose, lo stesso nel calcio”. Toni esagerati? Forse, ma non v’è dubbio che anche nel futbol si combatta per difendere la propria “fede”. Con le parole ma anche con le armi: ce lo dicono troppi esempi tragici. Perché di calcio si può morire. Nel 2013 in Argentina la Federazione ha dovuto chiudere gli stadi alle squadre ospiti: il gioco si stava facendo troppo pericoloso. Dopo la sconfitta con la Germania a Buenos Aires ne sono successe di tutti i colori. Erano tutti tifosi della stessa squadra, ma, si sa, una partita può essere l’occasione buona per una resa dei conti, per nascondere il colpevole di un crimine che con il calcio non ha nulla a che fare.

 

Lettere di Dilma Roussef ai brasiliani.


Dopo l’infortunio del campione brasiliano Neymar, la presidentessa Dilma Roussef ha scritto due lettere, pubblicate sul portale governativo: una a lui, una ai giocatori e alla commissione tecnica. Le parole di Dilma lasciano pochi dubbi su quale sia la cultura di riferimento: il grido di dolore di Neymar è condiviso da tutto il Paese, lui è un guerriero che non si lascia abbattere anche se ferito, che Dio ti dia forza e ti protegga sempre. Nella seconda lettera Dilma ha scritto che il Brasile già ha vinto perché ha la nazionale più bella e agguerrita del Mondiale. Ah, la scaramanzia! Ha detto male, la presidenta. Nelle due partite successive la sua nazionale ha dimostrato uno spaesamento assoluto, priva del suo profeta (che poi sarebbe il soprannome di Hernanes) ha perso la strada e incassato dieci gol segnandone uno, cosa che rischia di farle perdere le elezioni.

 

Come si spiega?


Quando Diego Armando Maradona – sul culto tributatogli in Argentina ci sarebbe molto da scrivere – segnò all’Inghilterra nei Mondiali del 1986 lo fece con la mano, come non si dovrebbe fare, direbbero il regolamento e il fair-play. La chiamarono la Mano de Dios, anche se una versione non ufficiale diffusa tra i taxisti di Napoli continua a parlare di gol di aureola. Quando il giocatore svizzero Dzemaili ha colpito un incredibile palo alla fine di Argentina-Svizzera negli ottavi di finale della Coppa appena conclusa, hanno parlato di Palo de Dios. Molte immagini divertenti sono comparse online. Raffigurano papa Francesco che, in qualche modo che lui solo conosce, devia quella palla sul palo. C’è da scommettere che in Argentina in molti abbiano pensato al miracolo quando il terzino tedesco Benedikt Höwedes ha colpito in finale un altro, clamoroso, palo.

 

Javier Mascherano, il miglior giocatore della nazionale argentina a parere di chi scrive, dopo la finale ha scritto su Twitter: “Scusateci tutti, non ce l’abbiamo fatta”. Lo perdoneranno di certo. Cosa che non pare succedere in Brasile, dove nonostante le ripetute richieste di perdono affidate da giocatori e allenatori a giornali e social network, pochi immaginano di poter scusare un uno a sette. Va bene la confessione, ma quando il peccato è grande, bisognerà pur espiare.