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17 aprile 2024
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I rebus delle primarie

Paolo Pombeni - 09.02.2016
Giuseppe Sala

Adesso Renzi vuol proporre le primarie anche al gruppo socialista europeo per la scelta del futuro candidato alla presidenza della UE. Una proposta a dir poco azzardata che continua a non tenere conto della natura piuttosto particolare di questo meccanismo per il coinvolgimento della “base” nelle scelte delle candidature per posizioni di vertice.

Per capire bisogna iniziare a ragionare sui problemi che le primarie hanno messo in luce nella nostra esperienza che ormai non è più così limitata. Anche la recente riproposizione di questo meccanismo a Milano non ha affatto sciolto le questioni che sono da tempo in campo.

La prima riguarda da chi debba essere formato il cosiddetto “popolo delle primarie”. In astratto ci sono due possibilità: 1) da coloro che sono regolarmente iscritti al partito o ai partiti che accettano quel passaggio per determinare la candidatura; 2) da tutti coloro che al momento del voto si autodichiarano partecipi di quell’ “universo politico” che li ha chiamati ad esercitare la scelta. Ovviamente non si tratta di scelte neutre, proprio perché non è che abbiamo a che fare con due categorie astratte, ma con fenomeni ben individuati della vita politico-sociale.

Nel primo caso c’è la garanzia astratta che a scegliere siano persone che hanno fatto delle scelte di militanza consapevole. Il piccolo problema è che attualmente le iscrizioni ai partiti sono più che in crisi, riguardano uno spettro sociale limitato (per esempio molti anziani e pochi giovani), riguardano più che altro persone legate alle nomenclature politiche. Dunque difficilmente in questi casi si avrebbero rinnovamenti e dinamiche di ricambio. Nel secondo caso ci sarebbe in teoria una campionatura più vasta del contesto elettorale in cui poi il partito (o la coalizione) andrà a pescare, però con il rischio che questa platea sia formata anche di soggetti che non vanno a votare per convinzione, ma perché “istradati” da interessi esterni. Se non addirittura che partiti avversari inquinino le elezioni invitando loro adepti a votare questo o quello tanto per fare un po’ di confusione.

Il tema salta sempre fuori: nelle elezioni liguri coi latino-americani, in quelle milanesi coi cinesi. Per lo storico nulla di nuovo sotto il sole: la polemica sugli “immigrati recenti”, che ignorando completamente quel che facevano andavano a votare ai caucus, era corrente nelle elezioni americane di fine Ottocento. Però questo non può farci negare che non sia proprio edificante vedere cinesi ripresi dalle TV che vanno al seggio senza conoscere una parola di italiano o senza neppure sapere il nome del sindaco attuale di Milano.

Tuttavia il problema fondamentale non è neppure questo. A Milano il primo classificato è distanziato di 8 punti dal secondo ed è poco credibile che tutti questi siano “voti cinesi”. La questione è piuttosto un’altra: il primo classificato ha avuto poco più del 40%, mentre poco meno del 60% si è diviso fra due candidati che rappresentavano “identità politiche” (saremmo tentati di dire pseudo-politiche) distanti da quella del primo. E’ qui che sta il dilemma principale: questo 60% cosa rappresenta? Solo una quota della “militanza” che si muove per le primarie e che non esprime se non una sezione limitata del corpo elettorale, oppure effettivamente si tratta di un comune sentire che andrà a riversarsi nelle urne vere della prossima primavera?

Le affermazioni di lealtà dei candidati sconfitti erano “obbligate”, visti gli impegni che avevano preso entrando in lizza, ma è dubbio che riescano a farle rispettare non solo ai futuri elettori, ma già ai vari partiti e correnti che fanno parte della coalizione (e che infatti si sono subito messi a buttar lì distinguo e prese di distanza).

Bene, se questa è la situazione non diremo in Italia, ma tutto sommato in una città che per quanto grande è pur sempre un’area circoscritta, come si può immaginare che un meccanismo simile funzioni a livello di un partito europeo che non solo deve misurarsi con un astensionismo formidabile, ma che deve fare i conti con la barriera della lingua, un fattore decisivo per la comunicazione? Non si penserà che un candidato possa far campagna avendo nei comizi un servizio di traduzione simultanea, a meno che non si pensi ad un processo di selezione che coinvolga una ristretta elite. E che dire dei costi di una campagna elettorale che dovrebbe toccare 28 stati? Le primarie presidenziali americane costano una follia e c’è tutto un dibattito sull’incidenza che ciò esercita nel promuovere davvero una libera competizione fra i migliori.

Purtroppo val la pena di notare che le primarie, comunque le vediamo, sono senz’altro dei meccanismi per sottrarre la designazione delle candidature a ristretti circoli che se le spartiscono, ma non sono un sistema per eliminare l’azione di quei circoli. Semplicemente li costringono ad un gioco all’aperto, relativamente più trasparente e quindi meno condizionato dalle dinamiche di potere interne ai circuiti dei tradizionali gruppi dirigenti.

Non sottovalutiamo che questo sia già, specie in tempi di crisi di leadership delle elite politiche, un certo passo avanti. Per farlo però divenire uno strumento adatto a promuovere davvero il cambiamento è necessario raffinarlo e costruirlo meglio. Quello a cui però sembra siano assai pochi ad interessarsi.