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17 aprile 2024
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Gli Stati Uniti e i dilemmi dell’Asia-Pacifico

Gianluca Pastori * - 23.07.2016
Pivot To Asia

Annunciato fra squilli di tromba alla fine del 2011, che fine ha fatto – meno di cinque anni dopo -- il ‘pivot to Asia’ che avrebbe dovuto rappresentare uno degli elementi qualificanti della politica estera di Barack Obama? Il recente attivismo del Presidente uscente sul fronte dell’Asia-Pacifico induce a porsi questa domanda soprattutto dopo che, in una lunga serie di circostanze critiche (prime fra tutte le iniziative ‘muscolari’ della Corea del Nord durante le ripetute crisi nucleari e missilistiche degli ultimi anni), la risposta di Washington è stata, nelle migliore delle ipotesi, ‘di basso profilo’. Con la partenza di Hillary Clinton dalla Segreteria di Stato (2013), il ‘pivot’ sembra essersi via via diluito fino ad assumere, negli ultimi anni, la forma di un più blando ‘rebalancing’. Parallelamente, i rapporti con la Cina (il cui contenimento costituiva uno degli obiettivi per cui il ‘pivot’ era stato pensato), sembrano essere migliorati. Fra il 2009 e il 2014, il Presidente Obama ha compiuto due visite ufficiali nel Paese asiatico e altrettante ne ha compiute il Vicepresidente Biden (2011 e 2013). Parallelamente, fra il 2011 e il 2015, due presidente cinesi si sono recati in tre occasioni negli USA: Hu Jintao nel gennaio 2011 e Xi Jinping nel febbraio 2012 e nel settembre 2015. L’integrazione economica fra i due Paesi è cresciuta, così come è cresciuta la loro interdipendenza, anche se i flussi di commercio rimangono fortemente sbilanciati a favore di Pechino. Il ‘pivot’ si è, quindi, diluito in una sorta di ‘nuova distensione’? L’affermazione è forse eccessiva. Certo è che, dai tempi del suo annuncio, diverse cose sono cambiante modo di Washington di approcciarsi alla regione e negli obiettivi perseguiti dalla sua politica.

La prima di queste cose è il fatto che, nel corso del secondo mandato, l’amministrazione Obama sembra avere ridimensionato il proprio impegno verso un’area deve i focolai di tensione restano molti e di difficile soluzione. Le mire nucleari della Corea del Nord da una parte, le ambizioni – anche territoriali -- della Cina dall’altra sono fonte di costante preoccupazione per gli alleati di Washington; alleati che, per contro, sembrano trovare poche ragioni di tranquillità nelle scelte della Casa Bianca. Anche la TPP - Trans-Pacific Partnership , che l’amministrazione aveva presentato come il perno di un nuovo sistema di rapporti fra Washington e gli alleati regionali sembra mostrare la corda. La maggiore integrazione economica, lungi dal portare i benefici attesi, ha impattato negativamente sull’apparato produttivo americano, mettendo in discussione le premesse di un progetto che – attraverso la via economica – mirava soprattutto a favorire un riavvicinamento a livello politico. Sin da prima dell’avvio della campagna presidenziale, l’accordo è stato pesantemente criticato sia – come era prevedibile – dai candidati repubblicani, sia da quelli democratici, fra cui la stessa Hillary Clinton, che dall’accordo era stata una delle principali sostenitrici ai tempi della sua permanenza al Dipartimento di Stato. Ciò che rimane è essenzialmente il buildup militare.La 7^ Flotta è attualmente la maggiore fra le ‘numbered fleets’ statunitensi e dispone stabilmente di 70-80 unità sottomarine e di superficie, 140 velivoli e circa 40.000 uomini fra personale di Marina e del Corpo dei Marines. Secondo i programmi, inoltre, alla fine del programma di ridispiegamento in corso, il 60 per cento degli assetti navali USA dovrebbe essere schierato nel Pacifico, benché ancora non sia chiaro se in modo transitorio o permanente.

Proprio questo buildup rappresenta il principale oggetto del contendere con Pechino. In più occasioni le autorità cinesi hanno protestato per quella che ritengono una presenza ostile all’interno della propria sfera d’influenza regionale. L’azione militare di Pechino, volta a riaffermare la propria sovranità su una serie di territori contestati (fra gli altri, lo Scarborough Reef, rivendicato anche da Filippine e Taiwan; le isole Spratly, rivendicate anche da Malaysia, Filippine, Taiwan, Vietnam e Brunei; le isole Paracelso,rivendicate anche da Vietnam e Taiwan; le isole Senkaku, amministrate dal Giappone e rivendicate anche da Taiwan) rappresenta un ulteriore fattore di tensione e alimenta un processo che spinge gli USA (anche su pressione degli alleati) ad accrescere la loro presenza militare nella regione. Il gioco delle reciproche percezioni svolge una parte importante in questo processo. D’altro canto, Stati Uniti e Cina condividono anche importanti interessi. Al di là degli screzi superficiali, Stati Uniti e Cina appaiono sempre più legati in un sistema di dipendenza reciproca. Evidente da tempo sul piano economico, questa si sta estendendo sempre più chiaramente al livello politico, via via che prosegue, da un lato, la politica di ripiegamento adottata dalla Casa Bianca e che dall’altro si fanno più aperte le ambizioni di Pechino di assumere un peso regionale comparabile alle leve di potenza che controlla. Da questo punto di vista, l’amministrazione Obama lascia in eredità una situazione assai complessa. L’interrogativo è: l’arrivo di Hillary Clinton alla Casa Bianca coinciderà con un rilancio in grande stile del ‘pivot to Asia’? E’ forse presto per dirlo. E’ tuttavia chiaro che – se questo rilancio ci sarà – le differenze rispetto al ‘pivot’ del 2011 saranno molte e non tutte necessariamente all’insegna di Stati Uniti più ‘muscolari’.





* Gianluca Pastori è Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.