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Fra lotta e governo

Luca Tentoni - 24.09.2016
Camus e Lebourg - Les droites extrêmes en Europe

In una democrazia funzionante, tutti i soggetti politici dovrebbero partecipare alle elezioni per vincerle e governare. Tuttavia, in molti casi (presenti e passati) ciò non è possibile per la marginalità elettorale del partito, sul piano della collocazione o su quello del peso in termini di voti o, ancora, per la volontà degli altri di non allearsi (la conventio ad excludendum); oppure è impossibile per motivi nazionali o internazionali o per autoesclusione del partito dal "gioco delle alleanze"; o, ancora, potrebbe essere - per periodi di tempo più o meno limitati - non conveniente per lo stesso soggetto politico. Si può gareggiare per non governare, dunque, e persino perchè non si reputa opportuno farlo. Del resto, alcuni partiti o movimenti hanno ottenuto grandi risultati pur senza essere al governo: fra tutti, un esempio per il passato (i Radicali italiani, con i loro referendum e le battaglie che hanno caratterizzato una parte importante della storia nazionale) e uno attuale (l'UKIP di Farage che ha avviato un processo diventato poi più ampio ed è riuscito nel suo intento di spingere la Gran Bretagna a votare l'uscita dall'Unione europea) lo dimostrano. In un bel libro scritto da Jean-Yves Camus e Nicolas Lebourg ("Les droites extrêmes en Europe", ed. Seuil, 2015) uno spazio è dedicato anche ai partiti cosiddetti "populisti": alcuni di questi hanno scelto di partecipare a coalizioni di governo (con esiti più o meno brillanti), mentre altri hanno preferito imboccare una via diversa, quella di "sollecitare" certe decisioni politiche pressando i partiti moderati (per certi versi, l'affermazione dell'Afd nel Land di Berlino, alle elezioni del 18 settembre, è l'ennesima dimostrazione che non è necessario governare, ma basta ottenere un 10-15% dei voti per mettere in difficoltà il "vicino più prossimo" - la CDU, in questo caso - su temi come l'immigrazione). Il discorso che Camus e Lebourg fanno sul populismo di estrema destra può - fatte salve le dovute distinzioni - essere il punto di partenza per una riflessione più ampia, non solo sul "populismo" in genere, ma sull'azione di "lobbismo di partito" che alcuni soggetti politici di vario orientamento possono svolgere - fuori o dentro i governi - per imporre all'attenzione dei partiti maggiori e della società tematiche reputate "di minoranza" o "di nicchia" (il federalismo della Lega Nord, solo per restare al caso italiano) o altre, pur avvertite dall'opinione pubblica ma non considerate prioritarie. Non è necessario, infatti, che un partito abbia la maggioranza dei consensi o sia “al potere” perchè riesca a "dettare l'agenda" al mondo politico nazionale. Governare gli impulsi sociali senza dover governare un Paese (con le responsabilità connesse): questa è la tattica di alcuni partiti populisti di successo. Scrivono Camus e Lebourg: "C'est là la socle de sa stratégie: imposer une dénonciation sociale de l'immigration en temps de chômage, pousser les droites à venir concurrencer l'extrême droite mais une droite parmi d'autres; de là, une fois la normalisation effectuée, viser le pouvoir. Les tentatives de captation des thématiques altérophobes des partis d'extrême droite par ceux de la droite de gouvernement se concluaient par un accroissement du soutien populaire aux premiers". È un po’ ciò che sta facendo ad esempio la Lega di Salvini: per inseguirla e non scoprirsi troppo a destra, Forza Italia dovrà spostarsi su certe posizioni poco compatibili con quelle del PPE, ma, così facendo, gli elettori sceglieranno sempre l'originale (leghista) alla copia. Fu così anche per il tentativo del centrosinistra di accattivarsi le simpatie del Carroccio con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. 3/2001): se è vero che il federalismo era diventato patrimonio comune di quasi tutte le forze politiche, in quegli anni, è però altrettanto vero che, al momento del voto, i dividendi elettorali dei progressi sulla via dell'"Italia delle piccole patrie federate" non sono mai andati ad altri se non alla Lega (la quale, peraltro, si era già alleata col centrodestra in vista delle politiche del 2001). Senza aver mai raggiunto il 15% dei voti (se non in alcuni sondaggi), si può dire che la Lega ha saputo condizionare i governi ai quali ha partecipato (senza, però, ottenere sempre quanto voleva, come nel caso della bocciatura popolare della riforma costituzionale, nel 2006) ma che ha anche avuto un peso complessivamente molto ampio sull'intera "narrazione" della Seconda Repubblica. Come si diceva, il peso elettorale e parlamentare può servire più a "creare un clima" che a trasformarsi in partecipazione attiva al governo e alle scelte dell'Esecutivo. In Francia, ad esempio, il FN ha avuto solo 35 deputati all'Assemblea Nazionale fra il 1986 e il 1988 e ne ha ottenuti solo uno o due in seguito, ma "l'elettore sa che il voto per l'estrema destra produce un effetto di lobbying sulle questioni migratorie, di sicurezza o identitarie: dei buoni risultati per l'estrema destra populista, ma senza che questa partecipi al governo, assicurando una pressione che porti a delle modifiche legislative costanti in queste materie" (Camus e Lebourg, op. cit.). L'appello al popolo è spesso accompagnato dal messaggio che il partito o il movimento non vuole il potere per il potere (sarebbe persino disposto a rifiutarlo, semmai) ma intende rappresentare la "vera" voce degli elettori e spingere i partiti ad agire su certe tematiche più scottanti. Questo codice comunicativo sottolinea la diversità nei riguardi delle altre forze politiche: è come se fra il popolo e il Palazzo si ponesse il soggetto politico populista, non come tramite, ma come alleato del primo contro il secondo e come eventuale protagonista di un’alleanza "necessitata" col secondo pur di fare l'esclusivo interesse del primo. Il termine "populista", in effetti, è molto vago e ambiguo: a partire dagli anni '90, spiegano Camus e Lebourg (la cui opera ci serve come traccia per questa nostra riflessione, anche se le nostre considerazioni esulano dalla loro trattazione in alcuni casi, circostanze e argomentazioni) l'etichetta è utilizzata ampiamente, ma "il populismo concepisce l'evoluzione politica come una decadenza dalla quale solo il popolo, sano e unito, può tirar fuori il Paese dalla corruzione delle élites". Questa capacità di rivolgersi come "attore intermedio" fra popolo e Palazzo è una delle chiavi del successo dei partiti populisti e soprattutto della loro capacità di conquistare consensi in aree elettorali, classi sociali e ambiti molto diversi. In un mercato elettorale "liquido" come lo abbiamo delineato in più interventi su "Mentepolitica", riuscire a rompere le barriere che invece valgono tutt'oggi fra gli elettorati di famiglie politiche tradizionali, è un fattore di successo dei partiti populisti. Ma da solo non sarebbe sufficiente per spiegarne la progressiva affermazione. La marginalizzazione sociale, la crisi economica, la gentrificazione, nel contesto di una "società deistituzionalizzata e mondializzata dove il cittadino non è più integrato nella politica per il tramite dei sindacati, dei partiti o della Chiesa" creano "l'esigenza di una chiusura protettiva". È qui che nasce il consenso a partiti populisti, come risposta a quella che Marine Le Pen chiama la Francia "dei dimenticati" o “degli invisibili”. Si può contestare la "ricetta", ma non negare che le percentuali di voto e i flussi elettorali delineino una tendenza: il disagio sociale ed economico di chi non reputa più valide le soluzioni offerte dai partiti tradizionali trova un canale diverso dall'astensione (che è, a nostro avviso, il vero e più potente avversario dei partiti populisti). È un effetto, non una causa. Sebbene sia vero che questi gruppi politici individuano un bisogno o un problema sociale e lo enfatizzano fino a portarlo in primo piano e a farne "il problema" (che soltanto loro, ovviamente, possono risolvere, con la "ricetta" che prima o poi, sull’onda della pressione mediatica, anche gli altri dovranno finire per adottare o per valutare positivamente), è però vero che sono partiti figli della crisi. Riempiono un vuoto, a modo loro. In alcuni casi, istituzionalizzano una protesta che - fuori dal Parlamento - potrebbe avere sbocchi violenti. In altri, invece, la enfatizzano, creando capri espiatori facili da individuare.  E’ vero che – secondo un sondaggio - chi ha votato AfD a Berlino lo ha fatto molto di più per il problema degli immigrati che per la crisi economica. Tuttavia pensare - a livello di classe dirigente nazionale, nei partiti "tradizionali" - che la soluzione ai conflitti sociali sia da ricercare solo sul versante dell'immigrazione, trascurando altri fattori di grave disagio sociale degli elettori (l'economia, che peraltro non è neppure il solo da affrontare) significa, a nostro avviso, colpire un falso bersaglio. In alcuni paesi, il sistema politico ha cercato di "assorbire" i partiti populisti facendoli entrare nelle istituzioni e nel governo. Del resto, denunciare i problemi della società e le limitatezze dell'azione dell'Esecutivo in carica, proponendo ricette alternative anche molto drastiche, è sicuramente un modo per conquistare voti: quando però si giunge ad ottenere un certo livello di consensi, bisogna scegliere che percorso intraprendere. Governare e decidere significa sempre scontentare qualcuno, soprattutto se ci si rivolge ad un elettorato eterogeneo promettendo soluzioni rapide. Per questo, come mostrano gli esempi riportati nel volume di Camus e Lebourg, spesso alcuni partiti populisti di estrema destra che sono andati al governo hanno perso consensi e hanno dovuto affrontare una seconda fase ripartendo dall'opposizione: "tornati all'opposizione, cercano di rivivificarsi (...); generalmente funziona. Il caso del FPO austriaco può servire da prototipo". Il populismo europeo (soprattutto quello di destra) sembra muoversi su tre direttrici: quella identitaria, quella originariamente antifiscale che diventa antieuropea e quella che punta sull'aspetto securitario. Il FN francese, secondo Camus e Lebourg, assomma tutte queste caratteristiche. Altri, però, aggiungiamo noi, ne valorizzano solo qualcuna: fuori dallo spazio della destra, ad esempio, è diffusa quasi esclusivamente la componente antieuropeista (o, più precisamente, contro l'euro in primo luogo e in secondo contro l'UE così com'è concepita ora). I temi dell'immigrazione e del rapporto con l'Islam in generale sono molto più sfumati nei soggetti politici che non si collocano a destra. Il nemico comune è però la "Casta". Per questo, arrivare al governo può essere più un rischio che un'opportunità, potendo (come si diceva) "imporre l'agenda" a partiti e istituzioni con altri mezzi (vittorie elettorali, radicamento sociale di certe "parole d'ordine", pressione sulle forze politiche "di frontiera" per spostarle sulle proprie posizioni). Nel loro volume, Camus e Lebourg ci dicono che il neopopulismo (soprattutto quello di destra) ci accompagnerà a lungo nella nostra storia futura. A nostro avviso, il compito principale della politica, soprattutto in questo periodo, è di fornire risposte, di governare non solo l'emergenza ma anche saper definire e fondare una prospettiva per le generazioni future e per i tempi che verranno. Un sapiente storytelling non basta: bisogna essere in grado di "guardare vicino e pensare lontano". Un compito che le famiglie politiche democratiche europee debbono porsi non tanto per assicurarsi la sopravvivenza, quanto per dimostrare di essere all'altezza del ruolo che hanno ricoperto per decenni e della classe dirigente che, a suo tempo, seppe darci le istituzioni nazionali e internazionali e la libertà della quale godiamo ancora oggi.