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Esercizi di leadership

Paolo Pombeni - 22.09.2015
Sandra Zampa

La gestione di Renzi della direzione PD di ieri è stato un autentico esercizio di leadership. Ha infatti imposto il confronto su tematiche a lui favorevoli e ha costretto anche i suoi oppositori interni, ma soprattutto i meno caldi fra i suoi sostenitori, a scendere sul suo terreno. L’approvazione all’unanimità della sua relazione lo dimostra ampiamente.

A chi si aspettava una direzione incentrata sulla questione di come votare sul ddl Boschi, il segretario premier ha riservato una delusione. Ha detto chiaramente che quella tematica interessa poco, è roba buona da talk show su cui ha ironizzato ( ricordando che ormai anche la trentesima replica di Rambo che va in onda in contemporanea a talk show dove ci si accapiglia sulla riforma del senato li batte in termini di audience). Significativo che nessuno ha avuto il coraggio di smentirlo pubblicamente su questo punto, segno evidente che c’era consapevolezza che si trattava di una percezione realistica degli umori popolari. Questo ovviamente non significa automaticamente che un tema non sia importante se non eccita l’interesse del pubblico, ma certo in politica è un elemento di cui si deve tenere conto.

La sostanza è che Renzi ha inchiodato il partito a focalizzarsi su due temi: le questioni sociali (povertà, immigrazione, disoccupazione) e quelle economiche (interventi per sostenere la ripresa a cominciare dalla riduzione delle tasse). Questo gli ha consentito di incentrarsi sulla sua tipica narrativa: si migliora riaccendendo la fiducia della gente nel futuro e “le elezioni si vincono suscitando una speranza”, non banalmente distribuendo qualche benefit (i famosi 80 euro). Di conseguenza non c’è alcun bisogno di imporre un obbligo di partito nel far passare la riforma del senato, perché basta un appello al buon senso che fa capire che mandare all’aria l’operazione avrebbe ripercussioni negative non solo di immagine, ma di credibilità dello sforzo di cambiamento avviato nel paese.

C’è stata anche una certa abilità nel richiamare che il successo delle politiche dell’ultimo anno e mezzo può e deve essere rivendicato da tutto il partito, grazie anche alla sua dialettica interna. E’ uno strumento tipico di raccolta del consenso da parte di una leadership, ma indubbiamente è stato efficace per gestire una assemblea in cui hanno dominato i toni ragionevoli. Non solo Cuperlo è stato molto dialogante riconoscendo la necessità di tagliare il traguardo delle riforme, ma lo stesso D’Attorre, il più polemico verso il premier, ha dovuto esordire dichiarandosi d’accordo con la politica del governo sull’immigrazione.

Un richiamo al realismo è venuto da Sandra Zampa che ha invitato a “valutare la gravità” di comportamenti che dovessero portare ad una approvazione della riforma con i voti determinanti di forze di destra. Il punto, come si capisce, è politicamente centrale e dirimente.

Il segretario-presidente ha pure incassato il sostegno aperto alla riforma da parte di Chiamparino e di Enrico Rossi, che hanno ricordato come in termini di consenso popolare loro ne abbiamo raccolto molto più di un qualsiasi deputato. Anche qui non va ignorato il passaggio con cui i due governatori hanno ricordato che bisogna ritornare a considerare la possibilità di ampliare l’esercizio dell’autonomia anche a regioni attualmente a statuto ordinario (nonostante l’indeterminatezza dell’art. 116 della nostra Carta), perché lo Stato ha bisogno di buone autonomie locali dove queste sono possibili.

Il dibattito su cosa significhi oggi essere “di sinistra”, sollevato da D’Attorre e un po’ anche da Davide Zoggia, è stato un teatrino. L’attacco del primo al blairismo era intellettualmente modesto, perché faceva poi perno sulla stantia questione dell’appoggio del leader inglese all’intervento in Iraq ed ha offerto il fianco alla scontata replica di Renzi che è tornato sul tema di Blair che vince tre volte le elezioni distanziandosi da una sinistra che “gode nel perdere”. Ovviamente la contemporaneità con la vittoria di Tsipras in Grecia, espressione ormai di una sinistra che facendo i conti con la realtà non perde in termini di leadership, giocava a favore del segretario del PD.

Certo Renzi ha vinto un passaggio importante, ma se questo sarà sufficiente per vincere la guerra è ancora da vedere. Il confronto con l’Aula del senato non sarà una passeggiata. Le opposizioni si attrezzano per dargli filo da torcere (anche al di là degli ostruzionismi di Calderoli) e in uno scontro di quel genere come si comporteranno i “duri” della minoranza dem sarà tutto da vedere. Del resto vanno anche compresi: se si arrendono senza combattere dopo la debacle che hanno registrato nella direzione PD scompariranno definitivamente. La battuta tranchant di Renzi, “chi di scissione ferisce di elezioni perisce”, arriva sull’onda di quel che è successo a Syriza, ma poi anche lui in un altro passaggio ha dovuto richiamare che i casi delle regionali in Liguria e delle comunali a Venezia inducono a qualche considerazione meno affrettata.