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Cambiare davvero verso? L’Italia tra diplomazia e politica di difesa

Michele Marchi - 30.07.2015
Roberta Pinotti

Dove vuole andare l’Italia? Vuole davvero costruire, su solide basi di riforme interne (istituzionali ed economico-sociali) e su una rinnovata credibilità in politica internazionale, qualcosa che assomigli al rilancio del sistema Paese, inserito nel contesto delle storiche partecipazioni alle varie organizzazioni sovranazionali? Al netto della retorica, pare di no.

In questo secondo decennio del XXI secolo le illusioni da “fine della storia” del post-bipolarismo non solo paiono chimere, ma si stanno tramutando in incubi che rischiano di turbare il sonno di molte generazioni. E il nostro Paese si trova al centro di un pericoloso crocevia “nord-sud” nel quale sfida dell’Isis, immigrazione e crisi libica si aggiungono alle tensioni interne all’Ue tra un nord “virtuoso” e un sud “lassista” e tra Ue e Russia sul confine orientale. Insomma l’Italia è passata in un ventennio dalla “rendita di posizione” che la sua collocazione geopolitica le ha garantito nel corso della Guerra fredda, all’impellente necessità di ricostruirsi un ruolo, tramutando le sfide in opportunità e sfruttando una tradizione di politica estera che, proprio nelle odierne principali aree di crisi, in passato è riuscita ad imporsi ben al di là delle nostre potenzialità.

Come spiegare l’assenza italiana nei vari negoziati che hanno condotto ai fragili, ma ad oggi unici, accordi tra Russia ed Ucraina del febbraio scorso? Un’Italia storicamente in prima linea nel dialogare prima con l’Urss (con il contributo anche della ostpolitik vaticana) e poi soprattutto con la nuova Russia, basti pensare alla storica firma dell’accordo tra Nato e Russia a Pratica di Mare nel 2002.

Come spiegare l’assenza italiana dagli accordi 5+1 che hanno condotto allo storico disgelo tra Usa e Iran? Un’Italia che grazie all’attivismo dell’Eni di Mattei nell’area ha gettato profonde radici, in grado di resistere ai traumatici passaggi dalla leadership di Mossadeq a quella di Reza Pahlavi e alla drammatica svolta della rivoluzione islamica del 1979. Troppo spesso ci si dimentica che tra il 1997 e 1998 il governo Prodi, prima con un viaggio del ministro degli esteri Dini e poi con una visita ufficiale del presidente del Consiglio iniziata il 30 giugno 1998, segnò una svolta storica. Romano Prodi fu infatti il primo capo di governo occidentale a visitare il Paese dal 1979.

Le ragioni delle odierne assenze e di questo generale ritrarsi sono molteplici e non è intenzione di chi scrive entrare nei dettagli o ripetere quello che più volte si ascolta per giustificare un’oggettiva e costante perdita di status internazionale del nostro Paese a vantaggio di attori in passato molto meno attivi (Berlino ad esempio) o addirittura quasi assenti (Spagna e Polonia tra gli altri). Su un punto però si vuole fermare un minimo l’attenzione. È evidente che le due parole chiave per ricominciare a svolgere un ruolo nei tavoli che contano quando si parla di ordine globale sono diplomazia e difesa. A maggior ragione in una fase nella quale, proprio a livello europeo, la crisi greca ha confermato che se vi sarà “più Europa”, gli effetti si vedranno sulla dimensione economico-finanziaria, lasciando ampi margini di “rinazionalizzazione” (o di sfruttamento delle organizzazioni sovranazionali esistenti e funzionanti come la Nato) sui temi appunto della diplomazia e della difesa.

Dunque diplomazia e difesa da ripensare prima di tutto a partire da una logica nazionale. E qui forse si trova una prima risposta al ripiegamento italiano. È possibile avere un apparato diplomatico all’avanguardia, ramificato e preparato con i livelli di investimento destinati al Ministero degli Affari Esteri in costante diminuzione? E’ possibile possedere un complesso di difesa aggiornato e operativo, procedendo a costanti tagli al ministero competente e, forse fatto ancor più grave, destinando le già magre risorse in maniera quasi totale ai costi per il personale e cifre pressoché ridicole a quelle per l’esercizio e per gli investimenti?

L’Italia, definita dal Ministro degli Affari Esteri Gentiloni in occasione dell’apertura dell’XI Conferenza degli Ambasciatori d’Italia, una “super potenza culturale”, destina lo 0,22% del bilancio statale al MAE. Al netto dei contributi obbligatori per la partecipazione italiana alle varie organizzazioni internazionali, per il 2015 sono stati stanziati 900 milioni di euro (i dati sono riportati in un accorato appello firmato tra gli altri da Emma Bonino e Marta Dassù e pubblicato il 25 luglio scorso da La Stampa). Non è così difficile spiegare per quale motivo il numero dei diplomatici tedeschi nel mondo è doppio rispetto a quelli italiani, addirittura quello dei francesi è triplo e quello degli inglesi è quattro volte quello dei rappresentanti italiani. E’ vero che negli ultimi anni si è, in modo meritorio, attuato un piano di riordino e ristrutturazione dell’intera rete diplomatica, con l’obiettivo di eliminare sprechi e aggiornare la macchina all’evoluzione globale, dunque privilegiando aree ritenute marginali in epoca di Guerra fredda e viceversa snellendo strutture non più così centrali. Ora è giunto però il tempo di tornare ad investire e di evitare di nascondersi dietro ad una forma di retorico europeismo, tentando di accreditare il progressivo eclissarsi del ruolo della diplomazia nazionale a favore di quella garantita, solo ipoteticamente, dal nuovo servizio diplomatico alle dipendenze dell’Alto Rappresentante.

Sul fronte della difesa il quadro è, se possibile, ancora più preoccupante. Nonostante le recenti rassicurazioni del ministro Pinotti, l’Italia per il triennio 2015-2017 continuerà con i suoi tagli al comparto, assestando attorno allo 0,7% gli investimenti per la difesa per i prossimi tre anni. Ma a lasciare sconcertati non sono solo le riduzioni in valore assoluto, quanto il confronto con i principali partner europei. Berlino ha programmato un aumento del 6,2% del bilancio per la difesa nei prossimi cinque anni. Parigi ha rivisto al rialzo la quota per il triennio 2016-2019. E Londra ha di recente disposto un incremento annuo dello 0,5% fino al biennio 2020-2021. L’intenzione di Germania, Francia e Gran Bretagna è quella di dotare i propri apparati militari delle migliori tecnologie e dei più avanzati addestramenti per rispondere alle sfide globali, oltre che di tenere fede all’impegno richiesto dalla Nato di aumentare le spese per la difesa dei paesi membri così da raggiungere il 2% entro il 2024. E il nostro Paese? Il quadro addirittura peggiora se si osserva al dato disaggregato della previsione di spesa difesa 2015-2017. Infatti ci si rende conto che quasi il 70% degli introiti è letteralmente “mangiato” dalle spese destinate al personale, solo il 20% circa agli investimenti e meno del 10% ricade sotto la voce esercizio. In definitiva pochi fondi e quasi completamente spesi per la sussistenza di un comparto che, salvo rare eccezioni, finisce per non disporre di materiali all’avanguardia e di conseguenza vede la sua capacità operativa fortemente limitata (per i dati si rimanda a http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3128 ).

Il quadro presentato è sintetico e per forza di cose semplificato. Questi pochi elementi permettono però una prima riflessione. Il Paese sta attraversando un “tornante storico” nel quale si intrecciano le dinamiche geopolitiche e strategiche emerse dall’esaurirsi dell’era bipolare e quelle, di natura più economico-finanziaria, sviluppatesi a partire dal trauma di inizio anni Settanta (crisi del sistema di Bretton Woods e prima crisi petrolifera). Una classe di governo davvero matura e responsabile dovrebbe impostare uno sforzo pedagogico di sensibilizzazione e di spiegazione di quanto siano complicate, ma altresì decisive, le scelte da assumere in questa fase. L’opinione pubblica, se responsabilizzata ed adeguatamente informata, può trovare le necessarie forze e i giusti stimoli per affrontare sfide che riguardano le nostre vite almeno quanto quelle dei nostri figli e dei nostri nipoti. Sarebbe insomma importante un approccio teso a rifuggire gli annunci ad effetto e le facili scorciatoie, che parli di sacrifici ed investimenti in settori apparentemente lontani dalle esigenze quotidiane, quali la diplomazia e la difesa appunto. Servirebbe una narrazione per i tempi di crisi. Si percepiscono invece populismi di varia natura, a volte mascherati - e “colti”-, altre più sguaiati - e quindi “rozzi”-, ma pur sempre populismi.