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Berlusconi, il “Partito VEG” e una storia che viene da lontano

Giulia Guazzaloca - 15.04.2017
Il Partito VEG

In Italia la “propaganda veg” ha ottenuto nei giorni scorsi il supporto di un testimonial d’eccezione, Silvio Berlusconi: le immagini del presidente di Forza Italia che allatta col biberon uno dei cinque agnelli salvati dalla macellazione e ospitati nella villa di Arcore hanno fatto il giro di quotidiani e social network, scatenando un gran numero di analisi e polemiche. Si tratta di una campagna tatticamente costruita per intercettare il voto di un “popolo”, quello vegetariano/vegano, in continuo aumento? Berlusconi è stato in qualche modo costretto dalla sua compagna Francesca Pascale e da Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega Italiana per la Difesa degli Animali e dell’Ambiente? Loro smentiscono assicurando l’autentico amore del presidente per gli animali. Qualcuno ipotizza anche che si tratti di una sincera virata in senso salutista, animalista e “bucolico” di un Berlusconi ormai in declino politico, che avrebbe quindi abbandonato il machismo godereccio degli anni ruggenti.

Al di là dei motivi sottesi alla scelta di Berlusconi e delle criticheche ha suscitato da parte di Confcommercio, Coldiretti e produttori di carni, un dato è certo: in Italia esistono ormai due “partiti” che, pur non essendo equivalenti sul piano numerico, si presentano come interpreti di due opposte “filosofie di vita”. Gli onnivori e coloro che, per ragioni salutiste oetiche, hanno rinunciato al consumodi carne e pesce(4,6%) o addirittura di tutti i prodotti di derivazione animale (3% con un incremento di 2 punti rispetto al 2016).Dalle indagini effettuate dalle Coop risulta che una delle frasi più ricorrenti dei consumatori interrogati sul tema sia “non voglio mangiare nulla che sia stato vivo”; secondo i dati di Eurisko, vegetariani e vegani sono presenti soprattutto nel Nord-Ovest, fra i giovani, le donne e coloro che hanno un titolo di studio superiore. Stanno crescendo i ristoranti “cruelty-free”, esistono “macellerie vegane” che offrono solo hamburger vegetali, nei bar cominciano a comparire brioches senza grassi animali, il consumo di carne d’agnello si è ridotto del 10% fra la Pasqua 2015 e quella 2016 e quest’anno le prenotazioni di agnelli e capretti sono diminuite del 20-30%.Qualcuno parla di “rivoluzione culturale”, sociologi e psicologi sciorinano analisi sul fatto che oramai anche gli stili alimentari sono “liquidi”, autonomi e personalizzati, che il vegetarianismo non è più una “religione” e il “cibo della rinuncia”, lungi dall’essere vissuto come punitivo e mortificante, diventa sempre più un modo per affermare la propria soggettività.

Il fatto è che la convivenza tra questi due “partiti”, entrambi agguerriti e portatori di una propria “verità”, risulta sempre piùdifficile. È ancora di questi giorni la sollevazione degli animalisti controlo sconto del 50% sull’acquisto di carne d’agnello promosso dalla Coop Centro Italia: “stop alla strage degli innocenti” è il grido lanciato in rete da migliaia di vegetariani. Sono oltre 34.000 le firme raccolte dalla petizione dell’Ente Nazionale Protezione Animalicontro la “Pasqua di sangue”,per mettere fine alla macellazione degli agnelli.La radicalizzazione delle polemiche non avviene solo sotto Pasqua. L’anno scorso, tanto per citare un episodio molto noto, un gruppo di vegani manifestò davanti al ristorante del celebre chef Carlo Cracco al grido di “è un assassino perché cucina animali”; in TV lui liquidò la protesta come una “stupidaggine” che non meritava repliche. Per i mangiatori di carne gli appartenenti all’altro “partito” sono integralisti “talebani” e perfino“nazisti”, dal momento che Hitler amava i  cani e probabilmente era vegetariano.Per gli animalisti, gli onnivori sono “assassini” e “killer” macchiati del sangue di milioni di animali e devastatori del pianeta; e se Hitler non mangiava carne, lo facevano comunque Stalin e molti altri dittatori.

La radicalizzazione del linguaggio, sicuramente favorita dai social media, è un fenomeno relativamente recente, che riflette la crescente polarizzazione avvenuta negli ultimi 3-4 decenni all’interno del movimento animalista e eco-animalista. Da un lato, non solo in Italia, vi sono organizzazioni istituzionalizzate, più caute e moderate nelle rivendicazioni, che adottano metodi di protesta ortodossi e convenzionali; dall’altro, piccole associazioni “grassroot” che rifuggono l’inquadramento in strutture organizzative tradizionali, promuovono forme di lotta dura e radicale e simpatizzano con le azioni dirette, al limite o fuori della legalità, dell’Animal Liberation Front. E se il web ha dato il via ad una nuova forma di “disobbedienza civile elettronica”, che consiste nell’invio coordinato di migliaia di mail ai server delle industrie oggetto della protesta, sono sempre più numerosi i gruppi animalisti che utilizzano in rete immagini “splatter” di animali agonizzanti nei mattatoi e nelle industrie delle pellicce.

In realtà i movimenti per la tutela animale hanno origini lontane e ancor più lunga è la storia del vegetarianismo.Quest’ultimo, nel mondo occidentale, si fa risalire addirittura a Pitagora e nel corso del Sette-Ottocento i nessi tra vegetarianismo, anticlericalismo, teosofia rivoluzionaria e religiosità dissidente furono forti in tutta Europa. Dal canto loro, le prime associazioni per la difesa degli animali nacquero durante l’Ottocento, in Europa e Stati Uniti, nell’ambito delle élite urbane e liberali e dei movimenti filantropici e riformatori che consideravano i maltrattamenti sugli animali una forma di “inciviltà” lesiva del decoro pubblico e della morale collettiva. E le polemiche non mancavano nemmeno allora. Da un lato la Chiesa cattolica, specie in Italia, accusava vegetariani e difensori degli animali di “paganesimo” e“semi-buddismo”, nell’intento di difendere la visione antropocentrica e gerarchica dell’ordine naturale; dall’altro, medici e fisiologi usavano spesso un linguaggio sferzante per colpire antivivisezionisti e zoofili, le cui istanze erano bollate come “sante ipocrisie del cuore”, “astruserie bigotte” tipiche di “certe zitellone protestanti” e di una sorta di “pazzia ereditaria” delle donne. Già allora, infatti, la componente femminile era molto numerosa tanto all’interno delle società zoofile, quanto nei movimenti vegetariani e nei paesi anglosassoni furono intensi i legami tra protezionismo animale, antivivisezionismo ed emancipazione femminile.

Una svolta radicale, sotto il profilo sia organizzativo sia concettuale, si è avuta a partire dagli anni Settanta del Novecento quando, grazie alla nascita delle filosofie animaliste anti-antropocentriche e per effetto del movimentismo del decennio precedente, prese vita l’animalismo moderno e con esso la rivendicazione dei veri e propri animal rights. Oggi il pensiero animalista e il fecondo filone di animal studies che riflette sulla complessa relazione tra umani e non umani pongono sul tappeto una serie di problemi e sfide che spesso fuoriescono dal perimetro del rapporto uomo-animale per investire il funzionamento delle nostre società e le basi etiche e giuridiche del vivere collettivo. Questioni serie e complesse, insomma, che vanno ben oltre le polemiche su cosa serviranno alla tavola di Berlusconi il giorno di Pasqua. Ed è proprio per questo – oltre che per ottemperare a quel percorso di “civilizzazione” in nome del quale si mobilitarono i primi difensori degli animali – che il “partito” degli animalisti/vegetariani dovrebbe abbandonare gli estremismi delle parole e dei comportamenti, a favore di un confronto civile, rispettoso e problematico. Perché non solo sono tanti i problemi che scaturiscono dalla nostra relazione con le altre specie, ma Peter Singer, uno dei padri del moderno “liberazionismo animale”, ha giustamente osservato che per arrivare a riconoscere la piena dignità della vita animale sarà necessario molto più altruismo da parte degli esseri umani cheper ogni altro movimento di liberazione. E la strada dell’altruismo non passa per la demonizzazione di chi non la pensa come noi.