Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Assunzioni, chiacchiere e consenso: la scuola nel paese della riforma permanente

Novello Monelli * - 04.09.2014
Delio Cantimori

Esiste un fondamentale postulato che chiunque si occupi di istruzione e ricerca in Italia conosce benissimo: qualsiasi riforma organica seguita a quella Gentile è una calamità.

Al netto delle buone intenzioni, ogni tentativo fatto dall’Italia repubblicana di mettere le mani sistematicamente su cicli scolastici, programmi, valutazione e reclutamento ha portato al deteriorarsi delle capacità di scuola e università di formare cultura e promuovere il merito. Nel 1962 la riforma della scuola media unica, promossa dal desiderio di superare la rigida dicotomia tra percorso ginnasiale, tecnico e professionale, si risolse in un eclatante insuccesso. Gentile aveva sancito una divisione basata fondamentalmente sul capitale sociale, che stabiliva (anche se non esclusivamente) chi avrebbe proseguito gli studi. Quarant’anni più tardi, all’inizio della grande stagione di riforme civili e sociali del centro sinistra, questa distinzione impermeabile non aveva più senso. Ma pretendere che da un momento all’altro studenti e insegnanti, fino ad allora separati da una barriera invisibile (ma tangibile) di classe, si potessero mescolare senza traumi fu incosciente. A pagarne lo scotto furono, in primo luogo, gli scolari più poveri e deboli.

A distanza di tanti anni, non pare che la mania dei ministri di inseguire fantastici costrutti teorici senza pensare alla loro applicazione sia venuta meno. Della madre di tutte le riforme universitarie, la cosiddetta “riforma Gelmini” (legge 240/2010), ciò che si ricorda di più è il caos che generò. E’ rimasta in larga parte lettera morta, ma in compenso professori e amministrativi sono stati occupati per anni a gestire tonnellate di carte inerenti a procedure burocratiche inutili. Per un partito che si vantava di voler aumentare l’efficienza dell’Italia, fu un modo estremamente intelligente di sprecare competenze e tempo.

Eppure, i governi, soprattutto quelli dell’ultimo ventennio, continuano ad adorare le “grandi riforme”, tanto che sarebbe difficile trovare nella lista dei ministri dell’istruzione recenti qualcuno che non abbia annunciato di voler varare la sua propria riforma. O una riforma della riforma. O una controriforma. L’attuale governo non fa eccezione. La scuola, del resto, è una faccenda che riguarda più o meno tutti: un po’ meno di nove milioni di studenti (con alle spalle le relative famiglie), e un po’ più di 660.000 docenti che ci lavorano (organico di diritto al dicembre 2013): un budget miliardario, e soprattutto un enorme bacino elettorale in cui pescare. Non stupisce che uno degli esecutivi più visceralmente votati alla raccolta del consenso costi quel che costi consideri il terreno dell’istruzione uno dei suoi capisaldi e punti all’ennesima riforma storica (o “nuovo patto educativo”).

Mentre queste righe vengono scritte (martedì 2 settembre), oltre ad alcune generiche linee guida fatte trapelare discretamente da Palazzo Chigi, della nuova controriforma si sa poco o nulla, se non che prevederà un lungo dibattito con tutte le parti in causa e che punterà alla stabilizzazione di un numero elevato (centomila?) di precari. Attorno a questi due capisaldi si sono spese molte parole in libertà, ma nulla pare indicare che gli interventi previsti riguardino veramente il miglioramento della missione dell’insegnante, una figura squalificata socialmente e culturalmente. Ancora fino al secondo dopoguerra, il professore di liceo era sovente una figura di spicco della vita intellettuale: filosofi come lo stesso Gentile, o storici come Gaetano Salvemini e Delio Cantimori, insegnarono per anni in alcuni licei più o meno prestigiosi, e non per questo vennero ritenuti studiosi meno seri. Ma erano tempi in cui la selezione di queste figure professionali era estremamente rigorosa, con piccoli numeri assunti periodicamente, mentre le remunerazioni, pur non altissime consentivano un livello decoroso di vita in un contesto sociale borghese. Al contrario, nell’Italia repubblicana l’assunzione di docenti ha seguito logiche del tutto schizofreniche, e normalmente lontane da ogni pretesa meritocratica. A blocchi di anni si sono succeduti “concorsoni” di massa, intervallati da immissioni in ruolo con “corsi abilitanti” di cui il massimo che si possa dire è che siano stati quantomeno generosi: non è difficile capire che quando si assumono in massa dieci o ventimila docenti il meno che ci si possa aspettare è una qualità altalenante. Che è esattamente ciò che caratterizza il corpo docenti delle scuole italiane oggi: a personale valido, aggiornato, preparato si affianca una massa di dipendenti annoiati e ingrigiti. Insegnanti volenterosi, non di rado con un anni di studi post laurea alle spalle, coabitano con burocrati ipersindacalizzati, più interessati alle chiacchiere vuote sui metodi pedagogici che alla sostanza della materia che dovrebbero far apprendere. Su questa galassia con diversi problemi, governo e ministero promettono di impattare non premiando il sapere e le competenze innovative (perché non si parla mai di riconoscere il dottorato di ricerca come titolo? la scuola disprezza così tanto le conoscenze di alto livello?) ma soddisfacendo le aspettative di parcheggio sociale. Una bella infornata di assunzioni, per forza di cose al di là di ogni valutazione e selezione seria. Così la scuola rimarrà un cronicario di semi-competenti e ai giovani della prossima generazione desiderosi di insegnare potremo dire: ci dispiace, non c’è più posto per voi, il governo aveva bisogno di centomila voti.

 

 

 

* Professore a contratto Università di Padova