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Assalto a Parigi: dopo l’unità, qualche amara considerazione

Michele Marchi - 13.01.2015
Assalto a Parigi

Dopo i giorni dell’ansia e della crudeltà, sono apparse splendide le immagini giunte da Parigi e da tutta la Francia. Le piazze e le strade sono state travolte da un’ondata di partecipazione e da un comune grido: libertà. Affascinante anche l’immagine dei leader europei, ma non solo, che procedono fianco a fianco e che ricordano le imponenti manifestazioni francesi dell’estate ’44. Scemata l’emotività, è tempo ora delle considerazioni politiche e l’entusiasmo lascia spazio a non poche perplessità ed interrogativi.

I tragici eventi che hanno travolto Parigi tra il 7 e il 9 gennaio riportano in primo piano una serie di criticità e di questioni irrisolte e trascurate. Alcune di queste possono essere considerate di natura globale e, in particolare, riguardano l’area del Vecchio Continente. Altre sono più legate alla specificità della lunga e oramai cronica crisi francese.

Rispetto alle prime, si può proporre uno schema secondo una duplice dimensione: geopolitica e morale. Sul primo punto bisogna ricordare che la presenza alla manifestazione dei principali leader europei, unita a quella di tutti i vertici delle istituzioni comunitarie (presidenti di Consiglio e Commissione, Alto rappresentante e presidente del Parlamento) non può far dimenticare le clamorose e colpevoli divisioni ed inefficienze reiterate in questi anni di fronte ai focolai di crisi che più alimentano l’integralismo terroristico di matrice islamica. Nonostante l’unità di facciata, i 28 su lotta all’Isis, destino della Libia, lotta al terrorismo nel e a sud del Sahel portano avanti politiche autonome e spesso confliggenti. In secondo luogo i principali Paesi dell’Ue, e tra questi in prima fila Parigi e Berlino, sono responsabili della scelta di non strutturare, ad inizio XXI secolo, un percorso serio e reale di adesione della Turchia all’Unione. Oggi Ankara e la sua politica nell’area mediorientale sono il primo vero tarlo per l’Europa. Da lì transitano molti dei combattenti che vanno e vengono tra Europa e Siria, da lì passa il petrolio contrabbandato dallo Stato islamico, per fare solo due esempi. Da questo punto di vista l’Ue ha compiuto un clamoroso autogol, che a Washington faticano ancora a comprendere. Infine terzo ed ultimo punto: bella la marcia dei leader europei, ma molto meno bello è lo scarso coordinamento nella gestione dei dati sensibili ad esempio sugli spostamenti di ricercati e foreign fighters. Sul tema del movimento di cittadini europei attraverso i confini interni all’Ue si profila una nuova divisione qualora dovessero concretizzarsi le proposte (che circolano) di alcune restrizioni a Schengen. L’ipotesi ad esempio è stata già bocciata, tra gli altri, dal nostro ministro Gentiloni, con un occhio alla politica italiana.

Rispetto poi alla dimensione definita schematicamente “morale”, la questione è presto posta. Gli eventi di Parigi hanno ribadito agli europei, se ve ne era ancora bisogno dopo Madrid 2004 e Londra 2005, che sarebbe bene abbandonare l’illusione (troppo diffusa) di vivere in un mondo pacificato. Siamo di fronte alla nuova dimostrazione di quanto sia fallace, ma quanto in realtà sia stata introiettata da troppi europei, la formula della cosiddetta “fine della storia”. Gli intellettuali del Vecchio Continente hanno costantemente attaccato la “vulgata” del trionfo del capitalismo neoliberale dopo il crollo del comunismo. Allo stesso tempo il loro espellere il tragico, il loro considerare decisive soltanto le questioni giuridiche, di diritti o come si ama dire di “governance” e di dialogo tra i popoli, diventa la massima rappresentazione della cecità delle democrazie europee post-belliche e post-bipolari. I fatti di Parigi hanno tragicamente evidenziato questo strabismo ideologico.

Se fino a questo punto si sono evidenziate questioni “europee”, non mancano le considerazioni quanto alla specificità francese. Ancora una volta per schematizzare sono tre gli ambiti che meritano qualche riflessione. Il primo può essere definito giuridico-investigativo. Dopo l’unità di questi giorni non tarderanno a giungere gli interrogativi scomodi. Già alcune voci si sono levate per denunciare il “buco” dei servizi francesi (addirittura pare avvertiti dagli omologhi algerini) e per sollevare qualche perplessità anche sulla condotta delle forze di polizia “convenzionali” (assenza di vigilanza di fronte alla sede di Charlie Hebdo, risposta confusa al momento della fuga dei due fratelli Kouachi e scelta di non mettere subito in relazione attacco a Charlie e uccisione a Montrouge). Tutto vero ma su questo punto bisogna ricordare due elementi: il lavoro di intelligence è molto costoso e la Francia, come peraltro noi italiani, si trova da anni impegnata nel tentativo di drenare risorse da quel settore pubblico che troppe volte lo si dimentica quando si ragiona di spread e patto di stabilità, gestisce anche le questioni di sicurezza. In secondo luogo il lavoro “informativo” fornisce risultati sul medio-lungo periodo, spesso difficili da “monetizzare” politicamente. Quanti voti sposta la notizia di un possibile attentato sventato, magari qualche settimana dopo che il lavoro investigativo si è concluso? Ma forse più ancora dell’investigativo è il livello giuridico a far riflettere nel caso parigino. E non tanto perché in Francia manchino gli strumenti per punire (ad esempio esiste una legge per impedire le partenze verso la Siria e nonostante questo già circa 1200 giovani francesi vi si sono recati per combattere). Il triangolo fratelli Kouachi-Amedy Coulibaly-Djamel Beghal (nel 2001 ideatore di un attentato sventato all’ambasciata americana a Parigi) si è creato in carcere, uno dei luoghi chiave nel quale si consolida l’indottrinamento all’islam radicale e all’integralismo terroristico. Addirittura Coulibaly avrebbe incontrato nuovamente lo stesso Beghal nel Cantal, quando quest’ultimo era agli arresti domiciliari. Il ministro Taubira (nota per la sua legge sulle unioni tra coppie omosessuali) dovrà nelle prossime settimane mettere mano ad un dossier cruciale, partendo da un reale censimento (ad oggi assente) degli islamisti radicali rinchiusi nelle carceri francesi, per poi passare ad un percorso di “individualizzazione” nella gestione della loro pena.

Il secondo ambito che merita alcune considerazioni è quello che, sempre per semplicità, si può definire sociale. Appare quasi banale ripetere, ma occorre farlo, che tutti i responsabili degli eventi tragici di questo inizio gennaio sono cittadini francesi. Parliamo di seconde e anche terze generazioni di immigrati che la Francia non è stata in grado di integrare. Nelle periferie delle principali città non si sono certo organizzate marce per commemorare i morti di Charlie Hebdo, né tanto meno quelli dell’iper-mercato ebraico. Al contrario il ministero dell’Educazione ha aperto una serie di indagini sui molti istituti scolastici (situati proprio nelle periferie) nei quali non pochi studenti si sono rifiutati di effettuare il minuto di silenzio di venerdì scorso. Il proliferare dell’islam radicale tra le masse diseredate dei giovani figli di immigrati delle banlieues francesi marcia parallelo alla diffusione sempre più consistente di un sentimento antisemita che, ben prima del folle gesto di Coulibaly, aveva mostrato la sua ferocia con la sparatoria nella scuola ebraica di Tolosa perpetrato da un altro islamista radicale, Mohammed Merah, nel marzo 2012.

La grave crisi di un modello di integrazione almeno in teoria fondato sull’adesione ai valori della laicità repubblicana apre il discorso alla dimensione politica. Il Paese, perlomeno dal “colpo del 2002”, vive in una profonda crisi politica, che solo in apparenza sembrava essersi risolta con l’arrivo di Sarkozy all’Eliseo nel 2007. I continui successi del FN, oggi guidato dall’astuta figlia del fondatore Marine, hanno motivazioni molteplici e non è questo il momento per descriverli. Quello principale risiede però nell’inconsistenza e nell’incapacità di comprendere l’evoluzione della Francia profonda, “periferica” (come la definisce un noto geografo) da parte dalle principali forze politiche “repubblicane”. Un’evoluzione che parla di una Francia divisa, intimorita e ripiegata su se stessa, ma soprattutto che sembra travolta dal suo stesso pessimismo. Proprio la gestione della marcia di domenica 11 gennaio ha confermato questa inconsistenza, particolarmente grave nel socialismo oggi al potere in tutto il Paese, a livello nazionale quanto locale. Era necessario far organizzare una manifestazione con questo obiettivo unitario ad un partito politico, il PS appunto? Meglio sarebbe stato demandarlo ad associazioni e sindacati, per poi farvi aderire le varie personalità politiche a titolo individuale. Non si è accreditata una dimensione “politicienne” della stessa? Inoltre come è concepibile che Hollande incontri tutti i leader del Paese all’Eliseo, compresa Marine Le Pen, e poi a quest’ultima sia impedito di partecipare alla marcia? Ancora una volta le forze “repubblicane”, e in particolare il PS (Sarkozy ha lasciato che i socialisti “si sporcassero le mani”), hanno fatto del FN il centro del dibattito. Marine Le Pen, che ha manifestato con i suoi militanti in una piccola cittadina del “suo” sud, si è potuta elevare nel duplice ruolo di vittima esclusa (e con lei i militanti, non dimentichiamo, del primo partito di Francia alle passate elezioni europee) e di prima ad aver avuto il coraggio di parlare di attacco terroristico di “matrice islamica” (prima che lei pronunciasse la formula, i vari responsabili politici, dal Presidente della Repubblica in giù, avevano evitato il termine Islam).

Mai come in questa situazione appare imprescindibile un nuovo inizio. Un controverso romanzo del provocatore M. Houellebecq, narra di una Francia nel 2022 “sottomessa” all’islam e pronta per “quieto vivere” a votare un presidente mussulmano. Siamo di fronte a fanta-letteratura. Ma senza una netta inversione di tendenza di natura politico-sociale pensare a Marine Le Pen all’Eliseo nel 2017 potrebbe non essere fantapolitica.