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27 marzo 2024
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Argomenti

Trump e i diversi volti del populismo

Loris Zanatta * - 03.12.2016

Ora ci toccherà prendere sul serio Donald Trump. Finora avevamo fugato il suo fantasma facendo scongiuri, scrollando le spalle, ironizzando sui suoi eccessi. Era un impresentabile: chiuso. Eppure presto sarà il Presidente degli Stati Uniti. Capita sempre più spesso che il mondo faccia il tifo per qualcuno e il paese interessato gli volti le spalle. E’ appena capitato col plebiscito colombiano. Ed è stato così a lungo anche in Italia: il mondo rideva di Berlusconi, ma la maggioranza degli italiani lo votava. Il fatto è che viviamo sì in un mondo globale, ma ciò non implica che il mondo, per ben informato che si creda, comprenda umori e dinamiche di luoghi remoti e complessi. Ora è capitato con gli Stati Uniti. Su Trump, sulla sua figura e sul suo trionfo son già colati e ancora più colano oggi fiumi di inchiostro. In realtà, però, su chi è, su quanto ci è e quanto ci fa, su cosa farà davvero, regna l’assoluta incertezza, perfino tra i più esperti e informati osservatori della realtà statunitense. Solo su una cosa nessuno ha dubbi: la sua inattesa vittoria ci racconta una società attraversata da un grave malessere, arrabbiata e spaventata, ansiosa di riscatto ma orfana di rappresentanza politica. leggi tutto

La nuova crisi della democrazia americana

Francesco Maltoni * - 30.11.2016

La democrazia in America è malata. Il Paese simbolo della lotta alla tirannia, che ha portato l’Europa fuori dalle secche del nazifascismo e ha saputo respingere il comunismo, attraversa oggi una fase delicata, probabilmente la più difficile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E ciò, non solo perché un personaggio come Donald Trump è arrivato alla presidenza, eventualità neanche lontanamente immaginabile fino a pochi mesi fa.

Nelle scorse settimane, abbiamo visto come in varie città degli States – da New York, a Los Angeles, fino a Portland – si sono tenute manifestazioni e cortei contro il presidente eletto, in cui migliaia di persone – in larga parte giovani – urlavano il proprio dissenso nei confronti del nuovo “commander in chief”.

Eppure, a quanto emerge dalle prime analisi demoscopiche sull’elettorato, le masse anti Trump sembrano essersi svegliate solo all’indomani delle elezioni. Come emerge dai primi riscontri, infatti, molti dei manifestanti hanno preferito astenersi anziché concedere il proprio voto a Hillary Clinton, contribuendo così alla vittoria del tycoon.

Nel frattempo, a distanza di oltre una settimana, leggi tutto

It’s the economy, stupid

Nicola Melloni * - 16.11.2016

In fondo a Hillary e ai suoi strapagati consiglieri sarebbe bastato ascoltare Bill, quando spiegava come si vincono le elezioni: “it’s the economy, stupid”. Invece per anni, e per ore l’altra sera sulla CNN, abbiamo sentito parlare di demografia, di millennials, di latinos. Ai politologi, soprattutto quelli americani, piace avere sempre nuove teorie che dovrebbero spiegare i cambiamenti politici – e i risultati elettorali – per i prossimi decenni. Prima doveva essere la religione (o il bigottismo) che aveva creato la valanga rossa di Bush – e che avrebbe dovuto trasformare stabilmente gli Stati Uniti in un paese repubblicano. Poi è arrivato Obama, ed ecco che le tendenze demografiche sono diventate la nuova chiave di volta del voto: in un paese sempre più multiculturale, i Repubblicani, aggrappati al voto bianco, era destinati a sparire. Ora che ha vinto Trump, quel paese multiculturale è diventato razzista.

 

La verità è che questi aspetti ovviamente hanno un certo peso – la religione, l’immigrazione e il razzismo. Ma sono ben lontani dal dare spiegazioni esaustive delle dinamiche politiche – e questo è ancora più vero nel mondo post-crisi. Un mondo che la politica tradizionale – e i sondaggisti, ancora legati a schemi statistici che non tengono in conto rabbia e disperazione – fa fatica a capire. leggi tutto

Fine di un’alleanza?

Bernardo Settembrini * - 16.11.2016

Preso dalla nostalgia, ho recuperato ieri un vecchio numero della rivista «Limes» del 1993, che molto mi colpì alla sua uscita. La rivista pubblicò infatti, con una bella introduzione di Sergio Romano e con il significativo titolo Aprile 1949: l’isolazionismo rovesciato, il verbale inedito della riunione del 3 aprile ‘49 tra il presidente Truman e i ministri degli esteri dei paesi che avevano appena firmato il Patto atlantico (per l’Italia c’era Carlo Sforza). E’ un testo che colpisce per la chiarezza con cui delinea la strategia postbellica USA: rispondere alla sfida globale del comunismo sovietico non con la messa al bando dei partiti comunisti occidentali o con altre misure illiberali ma con l’impegno USA nella società internazionale e nella ricostruzione europea, con le riforme sociali ed economiche, con la ricostruzione tedesca nel quadro della progressiva integrazione europea, con l’abbandono da parte delle potenze europee di politiche repressive nelle colonie.

I presupposti culturali e politici di questa grande politica furono ben delineati nel 1958 in un bel saggio di Vittorio De Caprariis, Storia di un’alleanza. Genesi e significato del Patto Atlantico, oggi quasi dimenticato (ma ripubblicato nel 2006 da Gangemi a cura di Giuseppe Buttà e Eugenio Capozzi). Il saggio sottolinea infatti come, dopo l’esperienza tragica per USA leggi tutto

Mondo secondo Donald.

Gianluca Pastori * - 12.11.2016

Il prossimo 20 gennaio, Donald Trump presterà giuramento e si insedierà formalmente nell’ufficio di quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Un risultato che pochi si attendevano e che solleva non poche perplessità in quanti vedono in questo risultato il trionfo delle pulsioni più viscerali dell’opinione pubblica americana. ‘Rozzo’ e ‘inesperto’ sono gli aggettivi più usati nella definizione sintetica del nuovo Presidente; aggettivi che vengono applicati tanto alla sua visione degli affari interni quanto a quella delle questioni internazionali. La paura, per i quattro anni a venire, è quella di un ritorno all’isolazionismo politico ed economico, con la messa in discussione dei (molti) accordi commerciali siglati dalle precedenti amministrazioni; di un aumento del debito pubblico destinato a finanziare in deficit una politica di grandi opere pubbliche; di una maggiore ingerenza dell’amministrazione nell’azione delle agenzie indipendenti (prima fra tutte la Federal Reserve); di un aumento delle spese militari e, al contempo, di un disimpegno di Washington dai teatri in cui è oggi presente. In Europa soprattutto hanno destato timori le dichiarazioni del Trump candidato sul carattere ‘obsoleto’ dell’Alleanza Atlantica e la necessità che il Vecchio continente svolga un ruolo più attivo nella produzione della sua sicurezza. Queste dichiarazioni, sommandosi alla volontà espressa dallo stesso Trump di giungere leggi tutto

Sondaggi sbagliati, Stati chiave e minoranze: come Trump ha sconfitto Hillary Clinton

Francesco Maltoni * - 12.11.2016

Il segnale sulla vittoria di Donald Trump, a ben vedere, lo aveva dato Barack Obama nelle ultime 24 ore di campagna elettorale. Non era mai successo, infatti, che il presidente uscente – e la first lady - entrassero in maniera così decisa sulla campagna elettorale, con ben tre comizi in altrettanti Stati federali a ridosso dell’apertura dei seggi.

E con il senno di poi, le aree in cui è intervenuto Obama sono proprio quelle in cui Hillary Clinton ha perso la presidenza: Pennsylvania, Michigan e New Hampshire. Bastava accorgersi degli spostamenti dell’inquilino in scadenza della Casa Bianca, per rendersi conto come, a Washington, il sentore del trionfo di Trump fosse temuto, percepito e anzi quasi atteso. Segno che, forse, non tutti i sondaggi erano così sballati come si lascia intendere.

Hillary Clinton ha perso le elezioni perché non è riuscita a replicare le performance 2008 e 2012 di Obama negli Stati chiave, a cominciare dalla Florida, dove è iniziata la rimonta vincente di Trump. Lì si è consumato il primo, atroce tradimento di un segmento elettorale che avrebbe dovuto sospingere l’ex first lady: quello dei latinos. Con una popolazione alquanto polarizzata – voti democratici concentrati nelle contee costiere di Miami, Orlando e Palm Beach, e le periferie saldi fortini repubblicani leggi tutto

La Siria e noi: perché armare (con prudenza) i ribelli e aiutare (molto di più) i curdi

Bernardo Settembrini * - 02.11.2016

Mentre sembra finalmente avviata l’offensiva per liberare Mosul – che ha rappresentato il Godot inutilmente atteso della vicenda mediorientale degli ultimi due anni – le forze governative siriane, con l’appoggio determinante russo, continuano ad applicare ad Aleppo la “tattica Grozny”: sconfiggere i ribelli radendo al suolo le parti della città da questi controllate. Si tratta di due vicende che è bene trattare distintamente.

La prospettiva di una tregua che possa alleviare le sofferenze di Aleppo appare purtroppo irrealistica. La ragione è semplice: Putin e Assad stanno vincendo e non hanno alcun interesse a stipulare un cessate il fuoco. Per questo se si vuole, nel medio termine, far tacere le armi, occorre che, nell’immediato, USA e occidentali armino i ribelli fino a consentire loro di rovesciare il fronte (o, in alternativa, di evacuare la città per non far soffrire ulteriormente i civili e organizzare altrove una forte controffensiva). A quel punto di fronte allo stallo Putin come gli altri “padrini” di Assad, gli iraniani, si convinceranno a trattative di pace serie (Assad seguirà o sarà sostituito da uno dei suoi generali).

Di fronte a questa proposta due sono le possibili obiezioni, una fondata, l’altra assai meno. Parto da quella fondata: l’opposizione al governo siriano è oramai egemonizzata da forze fondamentaliste; leggi tutto

I problemi del dopo-voto

Luca Tentoni - 29.10.2016

A pochi giorni dal voto per la scelta del nuovo presidente degli USA, un quotidiano statunitense (USA Today) ha dedicato un dossier al tema "Red blood, blue blood: How do we begin to heal after Clinton vs. Trump?" chiedendo ad alcuni giornalisti come hanno fatto (o possono fare) alcuni paesi a superare divisioni gravi (la Brexit, la crisi economica). Nella premessa si ricorda che l'elezione del 2000 (con i voti contestati della Florida e la battaglia fra George W. Bush e Al Gore) fu accesa e seguita da polemiche, ma oggi "le ferite sono più profonde: se Trump perde, cosa succede ai suoi sostenitori, molti dei quali arrabbiati bianchi che già ritengono di essere stati lasciati indietro? E se Hillary Clinton perde, cosa succede ai suoi sostenitori, tra cui molte minoranze che si sentono frustrate, sotto attacco, e le donne che avevano sperato di rompere un enorme soffitto di cristallo?". In altre parole si tratta di ricomporre una sorta di "unità nazionale" minata tuttavia da conflitti di antica data, difficili da superare. La campagna elettorale statunitense del 2016 ha finito per accentuare le divisioni e i rancori, alimentando inoltre la disillusione. Molti sondaggi indicano che i due candidati in lizza saranno votati da molti solo perchè si è in mancanza di meglio. leggi tutto

Aleppo e Mosul: Guerra Fredda e Proxy Wars

Giovedì 13 ottobre, il vice-Primo Ministro turco Numan Kurtulmuş ha dichiarato che le guerre per procura, o proxy wars, in Medio Oriente sono il segno del riemergere di un possibile scontro diretto tra le superpotenze della Guerra Fredda, cioè Stati Uniti d’America e l’odierna Russia. La guerra in Siria si sta trasformando in un conflitto regionale di più ampia portata, sempre a suo dire. Inoltre, alle tensioni relative alla sorte della città siriana di Aleppo si aggiungono ora quelle per Mosul in Iraq. Qui, da settimane il governo di Baghdad sta ammassando truppe dell’esercito regolare e delle milizie di “Mobilitazione popolare”, in larga parte sciite, in attesa dell’assalto finale alla roccaforte irachena dell’Organizzazione dello stato islamico (IS). Facendo eco alle monarchie del Golfo, il Premier turco Erdogan ha minacciato “fuoco e fiamme” se la città verrà occupata da truppe sciite e non da quelle sunnite, e intanto ha mobilitato l’esercito turco al confine con l’Iraq e alcune milizie irachene sunnite che sostiene da tempo. Il governo vacillante di Baghdad respinge le accuse al mittente e chiede il ritiro di alcuni contingenti turchi presenti nel nord dell’Iraq, ufficialmente a difesa delle comunità turcomanne. Per la precisione, queste ultime si sono divise tra il sostegno o meno alla stessa IS. leggi tutto

Luci e ombre della pubblicizzazione del privato.

Donatella Campus * - 19.10.2016

Una prova recente dell’avvenuta contaminazione tra politica e spettacolo è sicuramente venuta dagli USA con la candidatura di Donald Trump. Se il modello di Trump è quello del reality show (in linea con il suo famoso programma « The Apprentice », nel quale l’elemento centrale è quello della gara), altrove il terreno di incontro tra politica e cultura pop sembra essere piuttosto quello dell’intimizzazione, ovvero la politicizzazione della vita privata dei politici.

 

In Francia, ad esempio, da tempo la politica è caratterizzata dal fenomeno della « peopolizzazione »  (qui la parola « people» indica la gente famosa, soprattutto star dello spettacolo e dello sport). Almeno a partire dall’elezione presidenziale del 2007, nella quale i due sfidanti Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal erano divenuti  protagonisti della stampa popolare, il privato del politico è fortemente mediatizzato, sia in forma consensuale – cioè sono i politici che rivelano sé stessi in dichiarazioni e interviste – sia in forma non consensuale – dettagli e situazioni della loro sfera personale sono resi pubblici su iniziativa dei media.

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